Corriere della Sera, 23 febbraio 2021
Cinici
«Dovevamo essere più cinici sottoporta». Quante volte in questi ultimi giorni ho sentito questa frase? Quando una squadra di calcio perde, l’allenatore si presenta ai microfoni del dopo partita e si rammarica, filosoficamente, perché i suoi giocatori non sono stati abbastanza cinici. Filosoficamente e filologicamente verrebbe da dire: «Meno male che non sono stati cinici». Il nome cinismo, infatti, deriva dal greco kúon, cane, perché i Cinici si comportavano come dei cani randagi. Vivevano infatti secondo le regole della natura e rifiutavano le convenzioni sociali. Ora, dire che un calciatore è un cane significa che non sa giocare. Bisogna dunque mettersi d’accordo.
Il Cinismo è una scuola filosofica della Grecia antica che deriva dagli insegnamenti di Socrate. Il suo fondatore è stato Antistene di Atene (444–365 a.C). «I Cinici misero al centro della loro dottrina – scrive Ilaria Gaspari in «Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita» (Einaudi) – proprio l’obiettivo di vivere come cani, trasformando con foga quasi artistica ogni aspetto dell’esistenza in una professione di randagismo». Nonostante il lusinghiero giudizio di Nietzsche in «Al di là del bene e del male» («Il cinismo è l’unica forma nella quale anime volgari sfiorano quel che è onestà»), la storia si è incaricata di stipare il termine di negatività: il cinico non crede a niente (tipo dottor House), il suo comportamento è caratterizzato da indifferenza e sarcasmo nei confronti di qualsiasi valore e sentimento umano, è una persona fredda, indifferente e disillusa. Forse uno dei libri di testo della scuola allenatori di Coverciano è la «Critica della ragion cinica» (1983) di Peter Sloterdijk, sta di fatto che sottoporta il calciatore deve vivere un momento di distacco dalle emozioni, essere impudente, sfacciato e freddo. Paradossalmente e cinicamente non dev’essere un cane.