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 2021  febbraio 23 Martedì calendario

Come è stato ammazzato l’ambasciatore

Ore 10,15, villaggio di Kibumba, tre chilometri da Goma. Nella savana più pericolosa del più pericoloso Paese africano, avanzano due jeep bianche. Davanti c’è una missione del World Food Programme, dietro c’è l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio: l’accompagna un funzionario italiano del Wfp, Rocco Leone, e lo scorta un carabiniere, Vittorio Iacovacci. Due autisti, due bodyguard congolesi, sette persone in tutto: un piccolo e discreto convoglio, solo i distintivi Onu sulle portiere. È una missione informale, l’addetto consolare Alfredo Russo doveva parteciparvi ma all’ultimo è rimasto a casa. L’ambasciatore ha passato la domenica da un amico saveriano, padre Franco Bordignon, e ora in sneaker e occhiali scuri va a Rutshuru per visitare una scuola che deve ricevere aiuti alimentari. Nessuno porta l’auricolare di sicurezza, non ci sono ponti radio d’allerta, la strada è considerata «pulita» e relativamente sicura.
L’agguato è rapido. Simile a tanti da queste parti: un mucchio di pietre nel mezzo della strada Rn4, le macchine costrette a rallentare, a frenare. Dalla boscaglia spuntano sei, forse sette uomini con armi leggere. All’inizio è una raffica d’avvertimento, verso l’alto. Un’altra mira subito alla macchina del diplomatico e uccide l’autista, Mustafa Milambo. L’ambasciatore Attanasio, Rocco Leone e il carabiniere Iacovacci vengono fatti scendere: sono loro l’obbiettivo, i bianchi. I banditi danno ordini in swahili ai tre italiani – «fate presto, camminate veloci!» —, ma parlano fra loro in kinyarwanda: è una lingua ruandese comune tanto tra i fuorusciti hutu delle Fdlr, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, quanto fra jihadisti ugandesi Adf che vantano legami con l’Isis e imperversano in questi confini del Congo. Di chiunque si tratti, è un tentativo di rapimento: si intavola una trattativa ma inutilmente. L’ambasciatore e il carabiniere, già feriti, vengono fatti camminare per qualche decina di metri. Poi la sorpresa, almeno secondo la versione ufficiale di Kinshasa: compaiono dal nulla i soldati e i ranger governativi, richiamati dai colpi dei banditi, e c’è una sparatoria. Non si sa bene chi ammazza chi. Il carabiniere Iacovacci, 30 anni, latinese di Sonnino, muore subito. L’ambasciatore Attanasio, 43 anni, brianzolo di Limbiate, moglie e tre bambine, è colpito all’addome e perde molto sangue. Lo caricano su un pick-up, la bodyguard di Leone gli tiene la testa: quando arriva all’ospedale di Goma, una ventina di chilometri di strada, non c’è più nulla da fare. Rocco Leone finisce ricoverato, sotto choc, ma senza ferite. Non è chiaro che ne sia degli altri del convoglio: secondo alcune fonti sarebbero stati rapiti. È ancora meno chiaro che cosa cercassero i killer. Soldi? Un’azione terroristica? O magari un’arma di ricatto sugli investimenti energetici, anche italiani, nel Nord Kivu?
Siamo in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell’adempimento dei loro doveri professionali
L’ambasciatore Attanasio non aveva un’auto blindata. Non aveva una vera scorta. Non indossava un giubbotto antiproiettile. Non c’erano bandierine italiane che ne identificassero la presenza. I congolesi e l’Onu gli avevano garantito che quella strada era tranquilla. E allo stesso tempo il governatore della regione, Carly Nzanzu Kasivita, ora dice di sentirsi «sorpreso» dalla missione e di non esserne stato informato in anticipo. Troppe cose non tornano. E chi e perché abbia ucciso l’ambasciatore – questo è chiaro dal primo istante —, non è solo materia d’indagine per la polizia congolese. I Ros sono già in volo per il Congo, la Procura di Roma ha aperto il fascicolo di rito. La Farnesina chiede un report dettagliato al Wfp e un’inchiesta Onu per chiarire su quali basi, la Rn4 fosse ritenuta sicura. Le domande sono da rivolgere alla già fin troppo criticata missione Monusco, qui dal 1999, oggi una delle più grandi e organizzate del mondo, un miliardo di dollari di budget, un’inefficacia assoluta coi suoi 16mila caschi blu: è stata l’Onu, attraverso il Wfp, a comunicare all’ambasciata italiana che non serviva una scorta armata. E questo nonostante in quell’area, chiamata «le Tre Antenne», tre anni fa siano stati rapiti due turisti inglesi. E nel parco Virunga, solo negli ultimi anni, siano stati uccisi duecento ranger. E sulla famosa strada 2 che attraversa il paradiso dei gorilla di montagna sia frequente che spariscano preti, contadini, volontari in cambio di riscatti da mezzo milione di dollari.
La strada
L’Onu aveva garantito che la strada era sicura. L’Italia chiederà un’inchiesta
Un aereo militare riporterà a casa le salme dei due italiani. Come accadde per gli aviatori di Kindu, sessant’anni fa. Come fu nel 1995 per sei volontari di Lecco, massacrati allo stesso modo e nello stesso posto: una banda li sorprese a Rutshuru, proprio il villaggio che Attanasio cercava di raggiungere, e dopo ucciso l’autista sparò sugli altri. Morirono anche due bambini, quella volta. Proprio lì, proprio in quel modo. Ma quasi tutti se li sono dimenticati.

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Giordano Stabile sulla Stampa

I ranger del Parco nazionale del Virunga lo hanno trovato ancora in vita. L’hanno caricato sulla jeep, scoperta, disteso sulle loro ginocchia, il volto esangue, la felpa sollevata per esaminare le ferite all’addome. Un’emorragia troppo forte se l’è portato via, all’arrivo all’ospedale delle Nazioni Unite a Goma, provincia congolese del Nord Kivu. Terra di laghi e vulcani, di gorilla di montagna, minerali rari e di settanta gruppi armati, nazionalisti, hutu, tutsi, persino di jihadisti, e semplici banditi a caccia di soldi con estorsioni e rapimenti. L’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, dal 2017 a capo della nostra legazione a Kinshasa, era arrivato di prima mattina per visitare la scuola assistita dal Programma alimentare mondiale, un’agenzia dell’Onu, nel villaggio di Rutshuru. Due auto, non blindate, sette persone in tutto. La zona non era considerata «pericolosa», tanto da richiedere scorte e protezioni particolari. In uno dei fuoristrada c’era Attanasio, al suo fianco il carabiniere trentenne Vittorio Iacovacci. Davanti l’autista congolese del Pam, Mustafa Milambo.
Alle dieci locali, le nove in Italia, l’agguato. Il convoglio è attaccato da uomini armati. L’autista tenta una reazione, viene ucciso subito. Attanasio e Iacovacci sono prelevati e fatti salire sui mezzi degli assalitori, assieme agli altri. Ma c’è un imprevisto. A poche centinaia di metri si trova una squadra dei ranger. Riparano una linea dell’alta tensione. È gente abituata agli scontri, da decenni si battono con i bracconieri, spesso armati meglio di loro. Intervengono. Tutto precipita. Non è chiaro se è il carabiniere a reagire per primo e a innescare il conflitto a fuoco. Oppure i rapitori rispondono al fuoco dei ranger. In ogni caso l’ambasciatore e il militare vengono colpiti. C’è un inseguimento. Attanasio viene lasciato andare per primo, è in gravi condizioni. Ma non c’è nulla da fare, morirà in ospedale. I ranger continuano a risalire la strada nella foresta. Dopo un chilometro e mezzo trovano Iacovacci, morto. Si muovono anche i Caschi Blu della Monusco, la missione Onu che opera da due decenni nella Repubblica Democratica del Congo, e le forze armate governative. In serata viene ritrovato vivo uno degli altri sequestrati. Secondo fonti locali citate dal portale InfoAfrica, tre congolesi che facevano parte del convoglio sarebbero ancora in mano agli aggressori.
È invece un giallo la presenza di un terzo italiano nel convoglio attaccato. Sarebbe un dipendente di un organismo internazionale e si troverebbe libero e in buona salute, avendo riportato solo lievi ferite.
L’ambasciatore vedeva il proprio ruolo come «innanzitutto quello di stare vicino agli italiani, ma anche contribuire al raggiungimento della pace, una missione a volte anche pericolosa ma dobbiamo dare l’esempio», aveva spiegato l’anno scorso dopo aver ricevuto il premio Nassiriya. Un servitore dello Stato stimatissimo. Al cordoglio, per il «vile attacco», si sono uniti anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il premier Mario Draghi. Restano i dubbi sulla sicurezza. Il Pam ha ribadito in un comunicato che «precedentemente era stato autorizzato il viaggio su quella strada senza una scorta di sicurezza». Qualcosa non torna. In genere i diplomatici viaggiano in convogli di almeno tre auto, blindate. La Farnesina ha chiesto all’Onu di fornire quanto prima un report dettagliato sull’attacco, visto che l’ambasciatore era loro ospite. Anche perché tutto è accaduto vicino ad un’area dove, secondo fonti locali, «due turisti britannici sono stati rapiti da sconosciuti armati l’11 maggio 2018». Quella strada non era poi così «sicura».
Come il resto del Paese. Dalla caduta del dittatore Mobutu Sese Seko, nel maggio del 1997, il Congo ha conosciuto una sequela di guerre civili che hanno avuto quasi sempre il loro epicentro nelle province orientali, già investite a metà a inizio degli Anni Novanta dalle tensioni fra le etnie Tutsi e Hutu sfociate nel genocidio in Ruanda nel 1994. È un’instabilità che ha dato vita a una miriade di gruppi armati, endogeni o provenienti dai Paesi vicini. L’arrivo di milizie Hutu e Tutsi dal Ruanda ha portato alla nascita di formazioni di autodifesa, come i Mai Mai, dalla parola swahili (e araba) che vuol dire «acqua», proprio per difendere le risorse primarie locali. Un altro gruppo, che lottava contro il potere centrale di Kinshasa, il Mouvement du 23 Mars, si è arresto nel 2013 ma restano attivi il National Congress for the Defence of the People (Cndp), filo-Ruanda, e le Forces démocratiques de libération du Rwanda, guerriglieri Hutu. Secondo il governo congolese sono quest’ultimi i responsabili dell’attacco. Le autorità fanno anche notare che «non erano state avvertite». Un altro buco nella sicurezza, unito a una beffa.
Gianni Vernetti su Repubblica
I l migliore modo per onorare la memoria dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, caduti durante una missione umanitaria in Congo è di non voltare lo sguardo di fronte alle guerre dimenticate, ma di tornare ad occuparci seriamente dell’Africa a tutto campo: più aiuti umanitari, più cooperazione allo sviluppo, più cooperazione nel settore della sicurezza da un lato, ma anche valorizzazione delle tante opportunità che possono emergere da un più solido rapporto con le economie emergenti del continente.
L’ambasciatore Luca Attanasio era da tre anni a Kinshasa a rappresentare il nostro Paese con la moglie e tre figlie piccolissime.
l continua a pagina 27

segue dalla prima pagina
L’ho
incontrato diverse volte a Casablanca, quando era Console generale e poi a Kinshasa recentemente. Un uomo coraggioso e solare, un diplomatico capace ed efficace, la cui passione per l’antropologia e l’arte africana gli hanno fornito strumenti in più per comprendere la realtà che lo circondava.
È caduto in un quella zona instabile fra Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Rwanda, che da quasi 30 anni non riesce a trovare pace.
Il governatore del Nord Kivu Carly Nzanzu Kasivita fornisce una prima versione dei fatti: rapimento, fuga nel Parco Nazionale di Virunga, scontro a fuoco con l’esercito congolese (Fardc) e le “EcoGardes”, i ranger armati del parco, con l’esito tragico che conosciamo.
«I ribelli parlavano kinyarwanda » dice il governatore, e punta il dito su ciò che resta di quelle milizie “hutu” che nel 1994 in soli cento giorni si resero responsabili in Rwanda dell’ultimo genocidio dello scorso millennio: quello di un milione di “tutsi” nel piccolo Paese delle colline.
Sono i resti delle Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), uno dei protagonisti della “guerra mondiale africana” che dal 1994 nel nord e nell’est del Congo ha visto morire circa 5 milioni di civili, coinvolgendo eserciti e milizie di una dozzina di paesi.
Le Fdlr sono oggi sono un gruppo residuale che vive di rapimenti ed estorsioni fra i villaggi del North Kivu con qualche sconfinamento nella vicina Uganda.
Ma le milizie hutu non sono l’unico gruppo terroristico che potrebbe aver compiuto l’attacco. Gli occhi sono puntati anche sulle recenti infiltrazioni jihadiste che dalla Somalia, al nord del Mozambico si fanno largo in diversi Paesi dell’Africa orientale e centrale. Nel caso congolese si tratta delle “Adf-Allied Democratic Force”, gruppo ugandese da poco affiliato ad Isis, attivo anche nell’area dove è stato ucciso il nostro ambasciatore e più a nord nel bacino dell’Ituri.
L’allarme per la penetrazione jihadista nel Congo orientale fu lanciato lo scorso anno dal nuovo presidente della Repubblica Democratica del Congo, il riformatore Felix Tshisekedi, che ha guidato dal gennaio del 2019 un cambio di regime pacifico e non violento, dopo 23 anni consecutivi di governo del Paese da parte della “dinastia” dei due presidenti Laurent Desiré Kabila e del figlio Joseph Kabila.
Dal 1 febbraio Felix Tshisekedi è anche presidente di turno dell’Unione Africana e su di lui sono riposte molte speranze della comunità internazionale per una svolta nella stabilizzazione del nord del Paese e per una normalizzazione delle relazioni con la comunità internazionale, a cominciare da un rilancio a tutto campo delle relazioni politiche, economiche e commerciali con Usa ed Europa, per lungo tempo praticamente azzerate.
Oggi è ancora presente nella Repubblica Democratica del Congo una delle più grandi missioni di peacekeeping e di stabilizzazione delle Nazioni Unite, la Monusco, con oltre 15.000 soldati di 47 nazioni diverse.
Ma come ricorda Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018, dal suo Panzi Hospital a Bukavu, dove in quindici anni ha curato oltre 40.000 donne vittime di stupri di massa nelle successive guerre congolesi, «la missione delle Nazioni Unite ha ottenuto buoni risultati di contenimento, ma non ha risolto il problema alla radice. Le “regole d’ingaggio” delle missioni della Nazioni Unite hanno troppi vincoli di azione». E questo è uno dei punti chiave per poter affrontare le guerre dimenticate dell’Africa che purtroppo ci riguardano da vicino.
Servono missioni internazionali capace di agire, sconfiggere in modo definitivo terrorismo e le milizie armate, dimostrando che non c’è impunità per i crimini compiuti. La “Responsabilità di proteggere” può e deve diventare una vera priorità della comunità internazionale. I crimini di massa devono essere prevenuti con meccanismi che permettano azioni di “ingerenza umanitaria” da parte della comunità internazionale.
L’Africa è un continente che ci riguarda. Tornare ad occuparsene con serietà è una priorità per l’Italia e per l’Europa.