la Repubblica, 22 febbraio 2021
Diego Nargiso racconta Djokovic
Nel clan di Novak Djokovic, che ieri battendo in finale Daniil Medvedev ha conquistato il suo nono titolo agli Australian Open e il suo Slam numero18, ci sono un paio di italiani, Edoardo Artaldi ed Elena Cappellaro, che ne custodiscono i segreti. Ma c’è anche un altro azzurro che lo conosce bene: quando si incontrano, sono baci e abbracci. È Diego Nargiso, il mancino napoletano che vinse Wimbledon da junior e giocò in Davis la finale del 1998.
Nargiso, come direbbe Totò: lei che c’azzecca con Djokovic?
«Abbiamo lavorato insieme, era il 2014. Mi chiamò il suo manager, Edoardo Artaldi. Novak aveva messo su un progetto per far crescere giovani ragazzi serbi, all’inizio ne faceva parte anche suo fratello, Marko».
E poi è nata un’amicizia.
«C’era già prima. Novak viene a mangiare la prima volta a casa mia che ha solo 17 anni, ricordo come fosse ieri questo giovane ragazzo, educazione eccezionale, semplicità unica. Istrionico, simpatico ed esuberante. Sì, provo molto affetto per lui».
Ne ha seguito tutta la sua evoluzione personale.
«L’ho conosciuto da ragazzo, poi l’ho anche apprezzato come professionista. Pochi sanno quante cose lui faccia per la sua terra, pochi sanno quanto faccia per la sua famiglia. Nole è attaccato alle sue origini, anche se già da ragazzo s’era spostato a Montecarlo. Ma quando vieni da un Paese che ami, indipendentemente da dove poi abiti, ti rimane quell’attaccamento. Le sue fondazioni sono poco conosciute, come tante altre iniziative per aiutare i giovani.
D’altronde, glielo ha riconosciuto lo stesso Medvedev, che ha ricordato quella sua prima volta a Montecarlo dove lui era un ragazzino e Djokovic lo mise a suo agio. Quell’episodio dice tutto».
È cambiato come persona?
«Caratterialmente no. Il ragazzo è diventato uomo, ha vissuto – come tutti – vicissitudini familiari che ti segnano: resti sempre te stesso ma con qualche cicatrice in più. Magari è un po’ più indurito, ha dovuto fare qualche passo indietro: ricordate quando faceva le imitazioni? Posso testimoniare che lui le imitazioni le faceva da sempre e di chiunque: è un ragazzo così, cui piace scherzare sempre: il suo staff ha un’allegria pazzesca ed è un ragazzo molto alla mano. Ed è il numero uno del mondo».
Eppure viene criticato.
«Perché ha personalità, perché non gioca solo a tennis ma si schiera.
Perché fa parte di quei giocatori di tennis che sono cittadini del mondo e diventano personaggi scomodi, o comodi, a seconda di come la vuoi vedere. Personaggi che io rispetto, perché si spendono e non hanno paura di dire le cose, senza timore di farsi giudicare, senza pensare di dover essere sempre politically correct, attenti a non dire mai una frase fuori luogo.
Facile, no? Molto più complicato batterti per quello in cui credi, per i diritti tuoi e dell’umanità, spenderti quando il pubblico di solito si divide sempre a metà».
Appunto, l’odio e l’amore.
«Irrimediabilmente. Secondo me si è molto amati e molto criticati: ma ci vuole coraggio a prendersi la responsabilità, come avere le spalle larghe per certe decisioni, vedi scegliere come tecnico Goran Ivanisevic, croato. Nel suo staff, lui che è serbo».
La nuova ass ociazione, la Ptpa, è coerente ai suoi sentimenti.
«Assolutamente si. Nole è una persona cui piacciono le cose giuste. Attenzione, non che la Atp non sia giusta, sia chiaro. Ho sempre visto Nole come un paladino, avvocato di tante cause difficili: non mi stupisce questa iniziativa del sindacato, e io lo conosco bene».
Qualche episodio personale?
«Ricordo un giorno piovoso in Costa Azzurra. Per trovare un campo facemmo fatica: era un piccolo circolo, e dovemmo dire chi andava a giocare. Trovammo una folla di trecento persone: Novak, dopo l’allenamento firmò autografi a tutti e trecento. E firmò un libro che andò poi in beneficenza, e volle seguirne la storia».
Addirittura.
«Sì, Novak è così: un tipo che programma gli allenamenti, segue minuziosamente tutto. Ecco, questo è Djokovic, se vi piace. Ed è per questo che lo difenderò sempre. E gli auguro tanti altri Slam».