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 2021  febbraio 22 Lunedì calendario

335QQAFA10 Intervista a Han Kang

335QQAFA10 Talvolta oggi, in Italia, abbiamo l’impressione che non esista più letteratura. Quale letteratura? Quale poesia? Tranne per qualche figura più in ombra, il vuoto sembra assoluto, se chiediamo alla letteratura la radicale intensità della sua rara presenza. Se vogliamo leggere, dobbiamo spostarci lontano verso l’Estremo Oriente.
Han Kang è nata a Gwangju nella Corea del Sud nel 1970. La casa editrice Adelphi ha pubblicato La vegetariana (2016), Atti umani (2017) e Convalescenza (2019), che ha ottenuto un’attenzione grandissima nell’Asia orientale. Tutti e tre sono libri molto belli. Ma Il frutto della mia donna, nucleo originario de La vegetariana, è un vero capolavoro che tutti dovrebbero leggere. Apparso per la prima volta nel 1997, è contenuto in Convalescenza.
Ecco un malato: un giovane dottore che progetta un’anestesia, che sarà probabilmente dolorosissima. Tutto il racconto è impregnato di malattia: nient’altro che malattia, la quale ferisce, offende, intorpidisce, forse uccide. Il dolore del malato o della malata è intollerabile. Essi piangono silenziosamente. Non c’è limite al dolore. Intorno c’è l’ospedale, la grande città coreana, i giardini, gli autobus: la pioggia intensa; lontano i genitori, che il malato o la malata dovrebbero cercare; e la sorella alta e slanciata, dai lineamenti delicati e bellissimi. Nulla è più squisito di lei. In cielo, chissà dove, trascorrono uccelli, bianchi e con le zampe nere: le gru della Manciuria, veloci, ardite, irraggiungibili. Poi ci sono oche, anitre, galli, galline, uccelli di ogni specie, come se il mondo animale si fosse impossessato completamente di quello umano. Non esistono più uomini: oppure così vaghi da perdersi nel cielo e nella notte. Via via che il libro procede, esso diventa più arduo, fiorito, esotico: talora incomprensibile.
Una donna smarrisce la voce. Su di lei scende il freddo. La sua voce diventa esile, fievole, quasi inesistente. La realtà stessa la si è perduta; e chi la fruga e la scava è condannato al fallimento assoluto. Non resta che morire: morire totalmente, a meno che uno non sappia smarrirsi tra le nuvole: oppure nel regno della pura sofferenza. Tutti hanno perduto il dono di respirare. Ogni alba è terribile e sconvolgente.
** * Una mattina, all’improvviso, chissà perché, chissà come, appare una donna: una moglie; scalza, con le unghie bianche e inflessibili. Non ha la forza di aprire la bocca. Tutto è silenzio: un silenzio supremo; lo stesso che conosciamo dalle esili stampe giapponesi. Un dottore scopre nella donna un colorito malsano, e ausculta, invano, il suo soffio, sebbene questo soffio non esista: sia soltanto il soffio di un soffio, il ricordo di un soffio, di un remotissimo soffio perduto per sempre in un passato inesistente. La donna si ribella. Con una specie di ferocia, grida: «È impossibile vivere in questo mondo opprimente»: «Qui non c’è vita, ma orrore»; «qui, intorno, tutto è marcio».
** * Sulla donna cade il letargo. Così, sul mondo di Gwangju scende il silenzio: un silenzio ovattato e quasi mortale. La donna piange, asciugandosi la guancia con il dorso della mano. Dice: «Adesso è come se dovessi sprofondare in un luogo di malattia e di morte».
Il sogno della donna era sempre stato quello di morire da bambina, ma aveva rinviato e rinviato e rinviato perché non aveva mai scoperto il momento giusto della propria morte. Poi, all’improvviso, la donna scelse un paese – chissà quale —: ci restò sei mesi, e ancora sei mesi – e così via, così via, sempre più lontano, sempre più lontano, perché – disse – «voglio vedere il confine del mondo». «Voglio spingermi – ripeté – nel luogo più remoto della terra».
La donna scrisse su un grande quaderno: «Sento spuntare una lucciola e schiudersi petali in luoghi vicini e lontani: le larve lasciano il bozzolo; cani e gatti partoriscono i loro cuccioli; ecco il battito cardiaco del vecchio nel palazzo accanto; gli spinaci cuociono nella cucina al piano di sopra; un mazzo di crisantemi recisi accanto al grammofono nell’appartamento di sotto.
Giorno o notte, le stelle descrivono una quieta parabola; e ogni volta che sorge il sole, i sicomori lungo la strada fremono drammaticamente verso l’Oriente. Vorrei poter vivere solo di vento, sole e d’acqua». «Non sono stata felice – continuò a dire la donna – forse sulla mia spalla grava perennemente un’anima tormentata che non si aggrappa alle gambe e alle membra? Il mio solo desiderio è sempre stato di scappare: il dolore provoca un grido; la sofferenza genera un urlo spaventoso».
Il marito scrisse: «Adesso la forma di mia moglie conserva a malapena una traccia del bipede che è stata una volta. Le sue iridi sembrano trasformate in lucidi grappoli tondeggianti, e vengono poco per volta coperte da filamenti tenebrosissimi. Mia moglie non vede più. Non può nemmeno flettere le estremità dei suoi steli. Ma quando io esco sulla veranda, provo una sensazione confusa che non riesco ad esprimere: simile ad una corrente elettrica che esce dal suo corpo ed entra nel mio.
Allora, forse, solo per un istante, diventiamo la stessa, identica persona. Non c’è nulla d’altro, nient’altro che flutti immensi e vorticosi nei quali rischiamo di perderci e di annegarci».
Qualche personaggio – non sappiamo quale – osa ridere sia pure per un momento, perché l’acqua e il riso sono la stessa cosa: riso e acqua, acqua e riso.
Una donna piange e ride, ride e piange.
** * Per un istante, per un istante solo, noi entriamo nella casa della donna. Tutto è violento, raro, assurdo, esotico, a volte superbamente floreale. Tutto tace. Ci sono soltanto cose mute: pantofole ammucchiate, scarpe da ginnastica, scarpe eleganti, piatti bruciati, pentole sporche, pavimenti luridi. Ma la donna si sente sola. Ora si spoglia e passeggia nuda, sotto la pioggia, per la grande strada di Gwangju.
Non vede più, non può nemmeno flettere le estremità dei suoi steli.
La donna non era mai stata felice.
Il suo aspetto conservava a malapena una traccia della forma che aveva avuto in passato. Le sue iridi sembravano trasformate.
Lucidi grappoli tondeggianti venivano poco alla volta coperti da filamenti marroni. La donna non vedeva più.
** * Un giorno la donna stava seduta con le ginocchia premute nel fondo di un autobus, e desiderava spaccare il vetro con il pugno. Bramava il sangue sgorgato dalla sua mano. Da cosa cercava di scappare? Che cosa l’affliggeva al punto da farle desiderare di fuggire al punto opposto del mondo? E cosa la tratteneva? Cosa la paralizzava?
Cosa la affliggeva?
Quando le foglie, che un tempo erano le membra e i capelli della donna, cadono emettendo una manciata di frutta, quella sensazione cessa all’improvviso come un filo sottile che si spezza. Forse sulle sue spalle gravava perennemente un’anima tormentata, che si aggrappava alle membra. Il suo solo desiderio era un impulso basilare: il dolore che provoca il dolore.
** * Come nelle Odi di Pindaro, una sola sostanza domina il mondo: l’acqua. Anche Convalescenza è impregnato, imbevuto d’acqua: non c’è nulla d’altro. La donna dice: «Adesso è come se sprofondassi in un luogo chiamato malattia e morte».
Morire con violenza era sempre stato il sogno della donna: fin da bambina aveva sempre rinviato la propria morte. Scelse un paese.
Visse lì per qualche tempo e poi si spostò altrove, e così via, così via, sempre più lontano e lontano e lontano e lontano.