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 2021  febbraio 22 Lunedì calendario

Trent’anni di Ultrà. Intervista a Ricky Tognazzi


A curve chiuse è difficile sentire il suono di Ultrà, un film che ha 30 anni ed è fiero di portarli tutti. Racconta un tempo preciso, legato alle trasferte di massa, che non esiste più e uno stato d’animo che non cambia mai. Un groviglio di emozioni e di passioni e di cattivi esempi che tranciano le buone intenzioni: il magma del tifo organizzato. Ricky Tognazzi con il film ha vinto l’Orso d’argento a Berlino, in coabitazione con Jonathan Demme, per Il silenzio degli innocenti. Evidentemente nel 1991 si poteva parlare di fascino del male senza sensi di colpa.
Oggi Ultrà sarebbe meno disperato?
«Rischierebbe l’autocensura, proveremmo magari a trovare un finale etico».
Sarebbe giusto?
«Di certo non lo era allora, lo avremmo visto come un tradimento. La Rai ha cercato in tutti i modi una chiusura più conciliante, si aspettavano la denuncia del capo banda che per sbaglio accoltella uno dei suoi. Invece c’è chi prende le distanze, ma nessuno lo consegna. Il codice d’onore malato che tiene insieme il gruppo resta».
Ora la Rai pretenderebbe un altro finale?
«Non lo so, ma io in prima persona mi farei forse condizionare. A 65 anni il senso della morale si rafforza, a 35 la ribellione ce l’hai dentro. Nel 2021 abbiamo una sensibilità differente. Chissà, è un film figlio del 1991 e allora l’ipotesi di mitigarlo non l’abbiamo mai presa in considerazione. Consegnare il colpevole sarebbe stato da infami».
Partiamo dall’inizio. Come è nata l’idea?
«Io avevo appena debuttato alla regia con Piccoli equivoci, un film felice, che si è fatto notare. Claudio Bonivento, produttore attento, mi è venuto a cercare e mi ha detto: “Ti do solo il titolo, ultrà, una bomba"».
Perché non è scappato?
«Mi sono allarmato, lo ammetto, poi mi sono anche reso conto della potenza del soggetto. All’inizio non pensavamo di riferirci a una squadra vera e questo consentiva un po’ di distacco. Che non è durato, non avrebbe funzionato».
Quando ve ne siete accorti?
«Subito, ci siamo riuniti tra noi autori, Giuseppe Manfridi, Graziano Diana e Simona Izzo e abbiamo fatto finta di poterci inventare la tifoseria. Impossibile, quello era un cinema dallo spirito fortemente realista: Daniele Luchetti, Carlo Mazzacurati, Marco Risi ed io, si parlava di nuovo neorealismo. L’anno in cui giro Ultrà è quello in cui muore mio padre che se ne va se senza poterlo vedere infatti è dedicato a lui. I cosiddetti colonnelli, Sordi, Mastroianni, Manfredi, Gassman erano invecchiati, la commedia all’italiana era in declino. E poi l’unica condizione era avere come protagonista Claudio Amendola, quindi la squadra era per forza la Roma».
E vi siete ritrovati con un tema divisivo in mano.
«Ci dicevano, “siete matti” e a ripensarci oggi lo siamo stati. Solo che io non vedevo gli ultrà chiusi in uno stereotipo, mi interessava fare un gangmovie come I guerrieri della notte o Il ribelle. Ci sono parti in cui i tifosi agiscono da teppisti, ma pure un rito di passaggio che per molti è, o almeno è stata, la curva. Morta la politica, il calcio era rimasto il solo terreno di partecipazione».
C’era il rischio di sdoganare un contesto violento.
«Il capo branco è un disadattato, il personaggio di Amendola, il Principe, a un certo punto parla con la televisione, oggi è normale comunicare via social, nei Novanta interagire con un elettrodomestico era alienazione pura. È una storia di esclusione che non ha neppure bisogno di giudizi. La brigata-veleno butta tutte le energie in un evento a cui non arriva mai. Il treno si ferma, vengono bloccati, poi respinti e questo benedetto stadio, la sfida tra Juventus e Roma a Torino, resta quasi un sogno. Si parla di una generazione di invisibili».
I tifosi ora non hanno accesso agli stadi da un anno. Che effetto fa rivedere quel film contrapposto al vuoto?
«Mi fa ancora più riflettere sul fatto che quei tempi non esistano più, ora gli stadi sono deserti per causa di forza maggiore però eravamo già abituati ai settori senza pubblico: la tv, il modo di fruire il calcio... è tutto cambiato».
Cosa resta di quel film?
«È quello a cui sono più affezionato. È rimasto in sala un’eternità, ha incassato sei- sette miliardi di lire. Resta una profonda onestà intellettuale senza la quale non avrebbe mai avuto il successo che si è preso».
All’uscita siete stati attaccati. «In Italia puoi permetterti di tutto, ma non di toccare la mamma e il pallone. Amendola non è andato in curva per anni, io ho avuto gli onori degli striscioni. Mi accusavano di aver dipinto i tifosi come animali».
Ora non esiste un singolo frequentatore di curve che non abbia visto il film.
«Fin dall’uscita. Se parlavo a tu per tu con un ragazzo della curva si diceva coinvolto, se li incrociavo in sei mi guardavano male, volevano farmi sentire in pericolo. Persino Venditti, che ha firmato la colonna sonora, è finito nella lista nera».
Perché un idolo della curva, autore di Grazie Roma, ha accettato di farsi insultare?
«Credeva nel progetto. Dopo aver visto il film ci ha detto “bravi, siete entrati nei giubbotti di quei ragazzi"».
E come ci stavate?
«Pure per noi Torino è diventata un miraggio, il budget era al minimo. Io mi ero tenuto la scena madre per ultima credendo così di poter prolungare il soggiorno e alla fine invece di girarla al Comunale l’ho dovuta fare a Villa Ada, a Roma, in campo strettissimo. Ero inesperto, ho imparato che quello che conta si fa appena si può».
Il cameo di Massimo Ferrero, attuale presidente della Sampdoria, ha fatto il giro dei social.
«Già, era l’organizzatore e la scena nasce proprio dalle nostre ristrettezze. A zero soldi io non ne volevo sapere di lasciare Torino e lui urlava “Ti ci riporto, giuro”. Non ci siamo mai tornati, in compenso lui è diventato il Biancone, con il figlio laziale».
Cosa ha pensato quando se lo è ritrovato presidente?
«Mi aveva avvertito: “sto per comprare la Sampdoria”. Mi è sembrato folle. Pensa tu, io non sarei mai capace di vendermi un uomo, già fare un cast è complicato figurarsi convincere uno a giocare per me e poi metterlo sul mercato. Abbiamo avuto forti incomprensioni io e lui però ormai le abbiamo superate».
Nel ’95 muore Claudio Spagnolo, tifoso genoano pugnalato prima di Genoa-Milan. Ci ha rivisto Ultrà?
«Non ricordo bene il fatto, però il calcio è una forma di rappresentazione della guerra: devi portare la palla nel campo avversario. Poi il gioco sublima, ovvio. Scatta il coinvolgimento, il piacere. Lo scontro non lo vuole mai nessuno. Neanche i miei ultrà cercavano le coltellate, piuttosto la minaccia, l’autoaffermazione a ogni costo. Sentimenti che non hanno controllo».
Amendola, il Principe che alla fine accoltella lo Smilzo, è disegnato come un leader carismatico. In questa società lo è ancora o è diventato un poveraccio?
«Amendola doveva essere Red, il ruolo poi andato al debuttante Ricky Memphis. Per convincere Amendola a essere il più cattivo abbiamo dato potere di seduzione al personaggio. È legato a un’erotica passione, probabilmente non la leggiamo più così».
Ricordi del backstage?
«Mille aneddoti, uno che mi fa più ridere. Per trovare i cori, gli slogan, ho chiesto di andare a ruota libera “usate un linguaggio duro, parolacce, senza freni”. Mi hanno preso alla lettera, è partita una gara al ribasso e a un certo punto Memphis ne ha sparata una che in tutto questo tempo non ho mai osato ripetere».
Telefonerà a Jonathan Demme per condividere il compleanno?
«Sono 30 anni che guardo l’Orso d’argento nella mia libreria e mi immagino Demme che ogni volta si chiede “Ma chi cavolo è questo Ricky Tognazzi?"». —