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 2021  febbraio 22 Lunedì calendario

Intervista a Safran Foer. Parla di Biden

Dal momento in cui la pandemia ha raggiunto gli Stati Uniti, Jonathan Safran Foer ha vissuto in totale isolamento nella sua splendida villa di Brooklyn a poca distanza da Prospect Park. A New York non c’è mai stato un completo lockdown, e questo ha consentito una vita meno punitiva rispetto ad altre realtà urbane, tuttavia, nei primi mesi, ha rappresentato un vero e proprio choc vivere nel deserto di una metropoli che più di ogni altra deve il proprio fascino all’energia e alla potenza. «Impressionante e inquietante», per usare le parole dello scrittore, che aggiunge: «Il rischio più grande di questa crisi è non saper cogliere l’insegnamento che ci offre». Quando gli faccio notare che ha usato le stesse parole del Papa, sorride, e poi riprende il suo ragionamento: «So quanto sia antipatico citarsi, ma dieci anni fa in Se niente importa scrivevo che stavamo creando le condizioni perfette per una pandemia: gli scienziati ci dicono che 3/4 delle malattie infettive nascono all’interno di allevamenti. Da un punto di vista etico la pandemia ci invita a riflettere sui nostri rapporti interpersonali e su cosa è essenziale e cosa è superfluo, mentre impariamo che i virus ignorano le frontiere e le specie. Probabilmente gli abitanti dell’Europa e del Nord America saranno vaccinati entro l’autunno, ma questo non succederà in Africa, con la possibilità che riprenda una nuova ondata pandemica da quelle terre: ci si salva tutti insieme o non si salva nessuno».
Lo scrittore non è stato inattivo, in questo periodo: sta scrivendo un nuovo romanzo, un libro di saggistica e anche la sceneggiatura di una animazione per bambini, ma l’attenzione maggiore degli ultimi mesi è stata dedicata alla fine dell’era Trump e l’arrivo di Joseph Biden: «È la nuova America, con i suoi sogni e le speranze, che riparte da un dato concreto e ammirevole: nonostante i gravissimi tentativi di delegittimare e perfino truccare il risultato delle elezioni, il paese si è liberato in quattro anni, democraticamente, di Trump. Sebbene quest’ultimo abbia avuto un notevole risultato elettorale, gli americani lo hanno mandato a casa con una maggioranza di otto milioni di voti».
Lei parla di sogni: alcune aspettative sono destinate a non realizzarsi?
«È sempre così in democrazia, ma quello che conta è partire da ambizioni alte e fare di tutto per realizzarle».
Antonio Gramsci parlava dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione.
«Mi sembra una definizione efficace, ma non credo che la ragione debba essere sempre pessimista. Noi siamo portati a sottostimare il potere delle scelte libere».
Quali sono le sue speranze?
«Spero che Biden sappia dare le risposte appropriate alle emergenze del mondo in cui viviamo, e la priorità è rappresentata dai cambiamenti climatici: sappiamo che se non riduciamo di almeno del 50% il consumo di carbone mettiamo a serio rischio il pianeta. Insieme a questo drastico cambiamento di rotta spero che la nuova amministrazione lavori duramente contro le piaghe del razzismo, della misoginia e della disparità economica. La ridistribuzione del benessere non significa necessariamente arrivare al socialismo. E ovviamente spero in una società più civile: quello che è successo a Capitol Hill è il punto più basso raggiunto da questo paese da centinaia di anni. La nostra società ha le sue fondamenta nella buona volontà, nella generosità e nel capire le intenzioni degli altri, anche quando sono diverse dalle nostre. La promessa americana è basata sull’accoglienza e l’integrazione, nonostante spinte interne contrarie che hanno portato a degenerazioni quali ad esempio il razzismo. Alcuni tra coloro che hanno profanato Capitol Hill sventolavano la bandiera degli Stati Confederati, e altri indossavano magliette con scritto Camp Auschwitz e 6MWNE, acronimo per “6 millions wans’t enough” / “6 milioni di ebrei non è stato abbastanza”.
Anche questa è l’America?
«Ogni Paese, nessuno escluso, ha avuto momenti vergognosi. Credo che nessuno possa giudicare un paese straordinario come la Germania limitandosi al nazismo». Le persone che indossavano quelle magliette erano certamente degli americani, ma per fortuna si tratta di frange marginali, rispetto alle quali è necessario riflettere. Si può trattare con persone di questo tipo?
«Non ho paura di affermare che l’estremismo di un colore è simile a quello opposto. Ritengo poi che si debba dialogare innanzitutto con coloro che sul fronte opposto hanno la volontà di confrontarsi, intendendosi sui principi comuni. Se il dialogo è fruttuoso, si crea un terreno fertile che può portare gradualmente all’annullamento di simili degenerazioni. È possibile discutere con la stragrande maggioranza degli elettori repubblicani, e volendo capire cosa spinge all’abominio di quelle magliette ci si deve confrontare con la loro frustrazione: per quel tipo di gente non esiste un posto al sole. Io contesto duramente molte istanze dei repubblicani, ma rispetto e persino ammiro alcuni loro principi».
Può farmi qualche esempio?
«Partiamo da coloro che si sono rifiutati di indossare le mascherine: qualcosa di folle, grave e irresponsabile, tuttavia nasce dall’amore per la libertà. Aggiungo citando un tema estremamente divisivo: io sono favorevole alla libertà di una donna di abortire, ma ho il massimo rispetto per chi difende il diritto opposto, privilegiando la difesa di una vita in fieri. È tragico che su un tema come questo si demonizzi chi ha l’idea opposta alla propria invece di comprenderne le motivazioni. La buona volontà che dovrebbe essere alla base della promessa americana ha subito un colpo durissimo da quando sono esplosi i social media. Il loro potere è andato di pari passo con il cinismo degli interessi economici».
Quale è la sua opinione riguardo alla decisione di Twitter di bloccare l’account di Trump?
«È un terreno estremamente scivoloso, perché non si può accettare chi incita alla violenza, ma è difficile non parlare di censura, essendo Twitter un’azienda privata, ma di fatto monopolista».
Joseph Biden era il suo candidato ideale?
«Ritengo che sia una persona dignitosa, preparata e con una grande esperienza, che viene dopo il peggior presidente della storia degli Stati Uniti. Tuttavia alle primarie io ho votato per Elizabeth Warren, sapendo sin da allora che il suo approccio, decisamente più radicale, non avrebbe portato alla vittoria dei democratici. Lo stesso si può dire per Bernie Sanders. È difficile trovare molte persone per le quali Biden rappresentasse il candidato ideale, ma è enorme il numero di elettori democratici per cui ha rappresentato un candidato accettabile: la politica è fatta di questo tipo di scelte».
Qual è la sua opinione su Kamala Harris?
«Da un punto di vista politico è molto più moderata rispetto alla Warren o a Sanders, e il suo lavoro da Procuratore Generale ha suscitato più di una polemica, ma la sua elezione ha un altro tipo di valore, oggi fondamentale: è arrivato fin troppo tardi il momento che ha visto una donna, e inoltre una donna di colore, entrare alla Casa Bianca. Sappiamo tutti che il ruolo del vicepresidente ha scarso potere reale, ma questo dato ha un enorme valore simbolico e fissa un punto di non ritorno». —