Specchio, 21 febbraio 2021
Biografia di Michael Moore
La democrazia non è uno sport da spettatori, ma è un evento a cui si partecipa. Se non partecipiamo cessa di essere una democrazia». Quando non è sotto la luce dei riflettori Michael Moore abbandona ogni aspetto istrionico e privilegia la riflessione sulla provocazione: parlammo dei doveri di coloro che vivono in una democrazia ad una festa per gli Oscar a casa del produttore Ira Deutchman, di cui è grande amico.
È un uomo decisamente spiritoso, Michael, ma quello che emerge, a conoscerlo di persona, è la curiosità con cui ascolta l’interlocutore, e il modo con cui riporta ogni discussione al rapporto di forza tra oppressori e oppressi, e in generale alla politica. «Il capitalismo - mi disse mentre assistevamo all’arrivo delle star sul red carpet - è qualcosa di intrinsecamente maligno, e nessuno può regolamentare il male. L’unica soluzione è eliminarlo, e sostituirlo con qualcosa che è bene per la gente: quel qualcosa è la democrazia». Qualche anno dopo, nel pieno della guerra in Iraq scatenata da Bush, toccò a lui sfilare sul red carpet e ricevere un Oscar per Bowling for Columbine: fin quando il sistema maligno che disprezza è vincente, Michael è dell’idea di giocare la partita dall’interno, e quando ricevette la statuetta fece un discorso appassionato contro Bush che divise a metà la platea tra chi apprezzò il coraggio di parlare esplicitamente di fronte a un miliardo di spettatori, e chi lo trovò inopportuno, se non sbagliato. «Viviamo in un tempo in cui abbiamo delle elezioni con un risultato falso che hanno eletto un falso presidente. Un tempo dove abbiamo un uomo che ci manda in guerra per ragioni false: qualunque ne sia il motivo noi siamo contro la guerra mister Bush. Vergogna mister Bush, vergogna!»
Populismo di sinistra
Non si offende, Michael se lo definisci un populista di sinistra, per il semplice motivo che non è interessato in alcuna etichetta, e sia nell’aspetto fisico trasandato - jeans, scarpe da ginnastica e cappello da baseball - sia nella fattura dei suoi documentari, dà l’impressione che sia tutto improvvisato, ma la realtà è opposta: ogni atteggiamento, ogni posa, ogni dichiarazione è studiata con la massima attenzione. È consapevole di essere il punto di riferimento di una minoranza, ma sa benissimo che quella nicchia, in campo culturale, artistico e a volte anche politico, può offrire la massima visibilità, e ciò rappresenta un’opportunità che sa giocare da maestro: oltre all’Oscar, ha vinto anche la Palma d’Oro nel 2004 con Fahrenheit 9/11, dedicato proprio alla guerra al terrorismo dichiarata da Bush, e non è un caso che i suoi documentari abbiano raggiunto i più alti incassi di tutti i tempi e che la rivista Time lo abbia definito nel 2005 tra le cento persone più influenti nel mondo.
Cattolico praticante
È nato a Flint, la cittadina del Michigan ritratta ripetutamente nei suoi film, ed è stato educato secondo i dettami della religione cattolica: è tuttora praticante, nonostante si opponga al magistero della Chiesa di Roma per quanto riguarda l’aborto e il matrimonio tra omosessuali. Questa formazione l’ha portato ripetutamente a scelte spiazzanti per i suoi fan: ad esempio apprezza molto la Passione di Cristo di Mel Gibson, nonostante sia in disaccordo su tutto quello che la star rappresenta. Ha iniziato la carriera come giornalista, e dopo aver fondato un paio di riviste locali, venne assunto dal settimanale liberal Mother Jones, dove venne cacciato dopo soli4 mesi per aver messo in copertina un operaio licenziato della General Motors. Fu l’inizio della sua fortuna, perché fece causa per ingiusto licenziamento e riuscì a ottenere 58.000 dollari con cui finanziò film Roger & Me, che lo trasformò immediatamente in una celebrità.
Arte e impegno
Non tutti i suoi lavori sono dello stesso livello, ma anche in quelli meno riusciti ci sono sempre sequenze illuminanti o esilaranti, come in Sicko e Capitalism: a love story. Quando ne parla spiega che il segreto è realizzare i documentari come se fossero film, «perché il cinema è una incredibile meravigliosa forma d’arte, e passano i giornali i politici e reverendi per fare i sermoni».
Nonostante sia tuttora un punto di riferimento anche in politica - è stata l’unica celebrità che aveva previsto l’elezione di Donald Trump nel 2016 - il suo lavoro più recente ha cominciato ad apparire più prevedibile e meno graffiante, e ho avuto modo di vedere da vicino il rapporto tra l’entusiasmo assoluto dei suoi fan e il distacco del grande pubblico quando venne presentare alla Festa del Cinema di Roma Fahrenheit 11/9, che ammicca al suo precedente successo riferendosi alla data in cui Trump venne eletto presidente: al termine della proiezione esplose una standing ovation interminabile, ma nelle sale il documentario non ebbe alcun successo.
La crociata contro Trump
Come molti uomini della sinistra radicale combatte con veemenza i liberal progressisti: uno dei bersagli prediletti è la famiglia Clinton, e nelle elezioni del 2000 diede l’appoggio a Ralph Nader contribuendo a far mancare i voti che avrebbero eletto Al Gore al posto di Bush. Durante le primarie del 2008, definì le azioni di Hillary Clinton «disgustose» e appoggiò Obama, quindi diventò uno dei protagonisti del movimento Occupy Wall Street. È lo stesso periodo in cui elogiò pubblicamente Hugo Chavez, e definì i 400 uomini più ricchi d’America, detentori di una ricchezza pari a metà di quella dell’intero paese, come "400 piccoli Mubarak». Ma ovviamente il principale bersaglio di questi ultimi anni è stato Donald Trump, paragonato ripetutamente a Hitler, al quale ha dedicato anche lo spettacolo di Broadway The Terms of my Surrender, accolto da un successo modesto. «Il mondo è pieno di sporcizia, ingiustizia e violenza - mi disse alla fine della proiezione romana - se non occupiamo noi lo spazio, con qualcosa di nobile o con una protesta, sarà il male ad impossessarsene. Ognuno di noi ha un compito morale, e a volte l’arma più efficace è una risata».