la Repubblica, 21 febbraio 2021
Biografia di Naomi Osaka
Naomi non ha bisogno di mostrare la faccia feroce per mostrare la sua grandezza. Lei trionfa con la calma dei forti, chiedere a Jennifer Brady, sconfitta 6-4, 6-3 nella finale di Melbourne. Naomi Osaka è fuori dagli schemi, non si possono incollare etichette alla nuova regina degli Australian Open.
E come si potrebbe? Figlia di un haitiano-americano e di una giapponese, cresciuta e formata negli Usa ma che non ha avuto problemi nel dire «di non sentirsi necessariamente americana» e scegliere il Giappone come bandiera sportiva. E poi l’esposizione sociale: indimenticabili agli ultimi Us Open le sette mascherine, con sette diversi nomi di vittime delle forze dell’ordine, in aperto appoggio al movimento Black Lives Matter.
Perché lo fa? Perché Naomi è multiculturale, multinazionale, multirazziale. Rappresenta una nuova generazione nel tennis del Grande Slam. Parla con le emoji, va ai concerti come una ragazza qualunque della sua età, legge i manga e ammette la proprio vulnerabilità, come ha detto ieri dopo la finale: «Ho imparato che, sia in campo che fuori, va bene non essere sicuri di se stessi. Se non ti senti bene, va bene non sentirsi bene. Ma devi guardare dentro di te e cercare di capire perché». Questa è la ragazza che quando batté Serena agli US Open del 2018 pianse, scusandosi con il pubblico di averlo fatto. Ricordandosi dei suoi inizi, quando «vedeva lo shock sui volti delle persone». Anche in Giappone. All’inizio la chiamavano hafu. Parola che significa metà. E nel Paese del Sol Levante quando vinci, sei giapponese. Quando perdi, un hafu. Prima di lei questo destino era toccato a Yu Darvish nel baseball.
Per questo, in Naomi, la diffidenza è il primo sentimento, quando incontra degli estranei. Per questo parla piano, con un filo di voce. Ma sempre con cognizione di causa. Studia, e pensa, prima di farlo. Gli Slam, che ora sono quattro in bacheca, non le interessano. «Non voglio appesantirmi con le aspettative». Non ha mai perso una finale a questi livelli, anzi: se arriva ai quarti, vince il torneo. Eppure ecco la sua priorità: «Il mio obiettivo principale, anche se magari suonerà strano, è quello di giocare abbastanza a lungo da affrontare una ragazza che dirà che io una volta ero la sua giocatrice preferita o qualcosa del genere». Eccolo, il concetto di identità. Il messaggio da lasciare ai posteri. Un’eredità da consegnare a chi verrà dopo. Naomi Osaka vive tra i mondi, fa parte di una Generazione X, centro di un universo in evoluzione. Tutto in una volta. Anche se prima di compiere una rivoluzione di cui non è ancora del tutto consapevole, dovrà cercare di accontentare mamma Tamaki, sapendo che sarà impossibile: «Mia mamma è buffa. Ogni volta che gioco un match mi dice di mettere semplicemente più palle in campo. Per lei la soluzione per vincere è mettere la palla in campo. Non le interessano ritmo o potenza». Non si può vincere sempre.