Il Post, 21 febbraio 2021
Il caso Facebook-giornali, spiegato
È successa una cosa nuova. È la storia più grossa che si sta sviluppando da quando esiste Charlie (la newsletter del Post sui giornali, ndr), tra quelle che riguardano i cambiamenti nei modi in cui l’informazione giornalistica viene diffusa e nei modi in cui si sostiene economicamente: ovvero il confronto tra gli editori dei giornali tradizionali e le “piattaforme digitali”, Facebook e Google su tutte.
Le puntate precedenti sono queste: gli editori pretendono che Google e Facebook li compensino per la circolazione sulle piattaforme dei loro articoli e contenuti; lo fanno sostenendo che sia una questione di copyright e che le piattaforme sfruttino il loro lavoro senza pagarlo, per ottenere ricavi, motivazione che ha molte fragilità (i giornali sfruttano a loro volta Facebook e Google per diffondere i loro contenuti, ottenendone ricavi, e senza pagare per questo; e non è chiaro perché i contenuti dei giornali dovrebbero ricevere compensi e trattamenti diversi da quelli pubblicati online da chiunque altro) mentre la richiesta è più convincente se pensiamo che c’è da una parte chi sta guadagnando montagne di soldi e dall’altra chi ne sta perdendo montagne ed è in difficoltà (anche per propria colpa), e il cui servizio è piuttosto essenziale. Quella dei giornali è insomma più credibile come richiesta d’aiuto che come rivendicazione di diritti: che ci sia un piccolo riequilibrio non è sbagliato, anche se è difficile individuarne delle regolamentazioni eque ed efficaci.
Questa richiesta sembra comunque ottenere negli ultimi mesi maggior sostegno dalle istituzioni legislative internazionali, perché la capacità di pressione e lobbying degli editori presso la politica è radicata e più forte, e quindi Facebook e Google si sono spaventati – temendo si impongano regole fuori dal loro controllo, e nuovi costi universali – e ultimamente stavano abbassando un po’ la cresta e provando a offrire concessioni economiche puntuali (in alcuni paesi, per alcune testate, con misure e modi decisi da loro): mercoledì Google ha annunciato un nuovo accordo con l’editore News Corp di Rupert Murdoch, che pubblica nel mondo diversi grandi giornali (il Wall Street Journal, il New York Post, il Sun e il Times a Londra, moltissimi australiani). Ad accelerare questa e altre iniziative di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi è stata soprattutto una proposta di legge in Australia molto concreta e molto vicina all’approvazione per definire un compenso obbligato da parte delle piattaforme nei confronti dei giornali. Ma ci sono proposte simili in Canada e anche nell’Unione Europea.
Ma la cosa nuova più inattesa avvenuta mercoledì è stata invece una decisione in senso opposto a quella di Google, presa da Facebook in Australia: che ha annunciato l’inibizione alla pubblicazione su Facebook per tutte le pagine di testate giornalistiche e la rimozione per gli utenti australiani di tutti i contenuti provenienti da siti di news anche internazionali. La scelta drastica è stata attuata drasticamente, e gli algoritmi e i filtri all’inizio non hanno funzionato benissimo – facendo diverse “vittime innocenti” tra pagine e siti differenti – ma poi è stata tarata: e gli australiani si trovano da qualche giorno senza post che linkino agli articoli dei giornali o pubblicati dagli account dei giornali. Non è stato così traumatico (per Facebook quei contenuti hanno molto meno valore di quanto ne abbiano invece per Google), ma lo è stato per i giornali suddetti che hanno visto calare di molto il loro traffico, e i ricavi pubblicitari che ne derivano.
Alcuni pensano che quello di Facebook sia un bluff che non può durare, altri pensano che porterà a sviluppi nelle trattative: il giudizio più sensato è che probabilmente ormai tutti si stiano comportando in modi irragionevoli e capricciosi, e a pagarne il prezzo saranno in parte gli utenti e in parte la qualità dell’informazione, con un peggioramento ulteriore dell’affidabilità di quello che circola su Facebook (ma c’è anche chi spera che senza Facebook i giornali mettano in pratica logiche meno squalificate di attrazione dei lettori).