La Lettura, 21 febbraio 2021
6QQAFA10 Guy de Maupassant contro la semiologia
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Qui si tenta di dimostrare come Guy de Maupassant, con l’aiuto prezioso di John Wayne, cerchi di assestare un cordiale coup de grâce a quella scienza dei segni che i francesi chiamano sémiologie, una disciplina che molti anni fa andava di moda nelle università.
Procedo con disordine. Se c’è un autore saccheggiato dal cinema questi è Maupassant (1850-1893). Hanno tratto film dai suoi romanzi (Bel Ami, Una vita, Mont Oriol, Pierre e Jean) ma anche dai racconti (più di trecento), che spesso si presentano come autentici e veritieri soggetti cinematografici, da cui hanno attinto registi famosi come Max Ophüls, Jean Renoir, Eduardo De Filippo, Luis Buñuel, Jean-Luc Godard e altri ancora. Personalmente aggiungerei anche John Ford: è vero che Ombre rosse è tratto dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycock, ma è altrettanto vero che Haycock si era abbondantemente ispirato a Boule de suif (Pallina). Per non dire dei film «rubati». Tanto per fare un esempio, l’episodio Il marito di Olga di Luigi Zampa (da I nostri mariti) è l’esatta trasposizione del racconto L’eredità (sceneggiato da Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli e Mario Monicelli). O quel capolavoro assoluto di I due amici che avrebbe ispirato a Mario Monicelli il film La Grande guerra.
Questo è il primo motivo che mi ha spinto a leggere di seguito i suoi racconti nell’edizione dei Meridiani Mondadori, due volumi a cura di Mario Picchi e Maria Giulia Longhi.
Il secondo motivo è un po’ più personale (e di questo mi scuso): essendo un cultore della bêtise flaubertiana (Bouvard e Pécuchet è il mio libro feticcio e i due sono i miei eroi preferiti: ci hanno insegnato che la stupidità non solo è la buona salute degli stupidi, ma è anche la droga mortale degli intelligenti), non potevo non leggere con sistematicità – lasciando da parte la miriade di raccolte varie – i racconti dell’allievo prediletto di Gustave Flaubert. S’intrecciano persino deliziosi potins. Amico stretto di Alfred Le Poittevin e della sorella Laure, rispettivamente zio e madre dello stesso Maupassant, Flaubert decide di adottare fin dai suoi primissimi esordi l’esordiente scrittore come figlio spirituale – i maligni si sono addirittura compiaciuti dell’ipotesi di una paternità naturale – iniziandolo «ai sacri misteri dell’Arte» e seguendolo nella sua carriera: «Il piccolo è lanciato, andrà più lontano di noi». Dopo la guerra del 1870, Guy comincia infatti a frequentare con assiduità Flaubert: «Per sette lunghi anni ho fatto versi, racconti, novelle, ho fatto anche un dramma atroce. Non ne è rimasto nulla. Il maestro leggeva tutto, poi la domenica successiva, a pranzo, sviluppava le sue critiche e mi inculcava, a poco a poco, due o tre principi che sono il riassunto dei suoi lunghi e pazienti insegnamenti. “Quando si ha un’originalità, diceva, bisogna prima di tutto tirarla fuori; quando non la si ha, bisogna farsene una”».
Ci sarebbe anche un terzo motivo, ma ne accennerò più avanti (riguarda Ombre rosse e la sémiologie), tanto è privato e marginale. Ora, senza molte pretese (non sono un esperto della materia, non sono, come si dice, un «francesista») proverò ad accennare alcuni motivi per cui i racconti di Maupassant hanno una straordinaria forza visiva e seduttiva, tanto da poterli leggere come una lunga serie televisiva composta di 300 brevi episodi autoconclusivi. A parte lo stile asciutto ed essenziale (mai enfatico), a volte irresistibile, a tenere uniti gli episodi ci sono due tecniche di scrittura che si ripetono abbastanza frequentemente. La prima è un procedimento narrativo, una sorta di marchio di fabbrica, che consente di far precedere al racconto vero e proprio una sorta di preludio ambientale, una parte introduttiva che idealmente predispone il lettore all’ascolto (e alla visione). La seconda è un procedimento di montaggio: la reprise. Maupassant ricicla il materiale narrativo da un testo all’altro, attraverso parti dei racconti che finiscono nei romanzi o viceversa. Sono prelievi, adattamenti da un racconto all’altro, autocitazioni, prestiti che formano un unico tessuto (una tecnica sviluppata in musica da Gioacchino Rossini). Con una variante che poi sarà molto usata dal cinema: le situazioni possono ripetersi, ma cambia il punto di vista: il padre consapevole della paternità (Un figlio, Duchoux); un padre ignaro della paternità (Bambino, Il signor Parent, Il campo degli ulivi); una situazione dal punto di vista del figlio (L’assassino) o dal punto di vista della madre (L’abbandonato). Un «atteggiamento di scrittura» descritto molto bene da Henry James: «[Maupassant] fissa con occhio crudele qualche piccolo punto di vita umana, generalmente brutto, cupo, meschino, sordido, raccoglie siffatta particella e la stringe fino a che fa delle smorfie o sanguina. A volte la smorfia è molto buffa, a volte la ferita è molto brutta; ma in entrambi i casi l’intero fatto non è un’invenzione, un castello in aria, ma è una cosa reale, che viene osservata, annotata, rappresentata».
La brevità istituzionale dei racconti (affinata da una assidua pratica giornalistica) sembra fatta apposta per esaltare una poetica dello sguardo. Il giovane Maupassant ne dà una prima formulazione fin dal 1877, quando scrive a Paul Alexis: «Se ci tengo che la visione di uno scrittore sia sempre giusta, è perché lo giudico necessario affinché la sua interpretazione sia originale e veramente bella (...). La cosa vista passa attraverso lo scrittore, prendendone così il colore particolare, la forma». Maupassant si compiace nel definirsi un regardeur: «Vedete, François – diceva a Tassart, il suo fedelissimo domestico – per vedere bene e distinguere bene (...) è necessario, quando si guarda, vedere tutto; non accontentarsi mai dell’approssimazione».
L’incipit di Pallina è una panoramica con grandangolo, intervallata da primi piani: «Per giorni e giorni i brandelli dell’esercito in rotta avevano attraversato la città. Non erano soldati, ma orde sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le divise a pezzi, camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi. Parevano tutti depressi, sfiniti, incapaci di pensare o di decidere, andavano avanti solo per abitudine, e appena si fermavano cadevano dalla fatica... Passavano poi legioni di partigiani dai nomi eroici – i “Vendicatori della disfatta”, i “Cittadini della tomba”, i “Votati alla morte” – e dall’aspetto di banditi...».
La grigia epopea quotidiana del signor Patissot in Le domeniche di un borghese parigino sembra narrata da una voce fuori campo che, beffardamente distante, racconta le esperienze domenicali di un impiegato ministeriale, in dieci rapide sequenze. Una magica Parigi fa da sfondo all’insensatezza umana che si esprime nel desiderio di emulazione, nell’opportunismo, nel vizio piccolo-borghese di costruirsi un’immagine di sé (la famosa rispettabilità) che non corrisponde mai al vero: il signor Patissot «era largamente fornito di quel buonsenso che rasenta la stupidità».
Alcuni critici preferiscono il Maupassant rurale, descrittore robusto della vita di campagna. Sembra davvero di rivivere i quadri degli impressionisti nel leggere Una scampagnata, l’ironica descrizione di una merenda sulla Senna: l’incontro della famiglia Dufour con due giovani canottieri crea l’occasione per una piccola «scappatella» extraconiugale da parte della madre e per un’avventura prematrimoniale per la figlia. Poi tutto si ricompone, in uno stantio equilibrio di convenienze. Ma quando Maupassant abbandona l’historiette e affida il mondo contadino alla durezza del racconto (Il cieco, Il mendicante, In campagna), allora la Normandia appare in tutta la sua crudezza e ai contadini non viene risparmiato nulla, in fatto di avidità, rozzezza, meschinità. La cena in cui il povero cieco diventa per i suoi compaesani una specie di zimbello martire anticipa certi film di Buñuel: «A volte mettevano sulla tavola, davanti alla scodella da cui il cieco aveva cominciato a mangiare la minestra, un gatto o un cane. La bestia fiutava d’istinto l’infermità dell’uomo e, pian piano, si avvicinava, mangiando in silenzio...».
Ad altri critici, invece, piacciono molto i contes del soprannaturale: nei suoi racconti fantastici Maupassant applica una tecnica analitica ai tradizionali temi dell’Invisibile, del Doppio, delle Realtà ulteriori che i nostri sensi non possono afferrare, perfino della Vita sugli altri pianeti. Le vicende narrate hanno come protagonisti personaggi che sprofondano nel loro abisso o avvertono la presenza di un’altra realtà invisibile che li assale e che non si sa mai se sia davvero esistente o frutto della loro psiche tormentata o malata. Il racconto più esemplare è indubbiamente Le Horla, diario di una follia progressiva che annienta la volontà: «Sono perduto! Qualcuno possiede la mia anima e la governa! Qualcuno ordina tutti i miei atti, tutti i miei movimenti, tutti i miei pensieri! Non sono più nulla in me stesso, sono nient’altro che lo spettatore schiavo e terrorizzato di tutte le azioni che compio». Uno stile capace di mescolare soprannaturale e quotidiano, nell’inoculare dubbi sull’esistenza di entrambi, trasforma il sotterraneo che è in noi in una febbrile pulsazione della scrittura.
Per non parlare dei temi della guerra, anche sulla base della brevissima esperienza personale dello scrittore, soprattutto a proposito del conflitto franco-prussiano, culminato con la sconfitta di Sedan, pesantissima per la Francia anche sul piano psicologico. Di fonte a un pessimismo disincantato che sembra investire tutto, cose e persone, Maupassant dice di sentirsi condannato a quella che egli definisce «la seconda vista che è la forza e la miseria degli scrittori». Ancora una volta emerge il tema dell’école du regard. L’importante è che gli ossessi della cancel culture e i guardiani del pensiero corretto lascino in pace Maupassant, evitando di indirizzare i loro strali su concetti e su un lessico che appartengono a due secoli fa.
Letti i due volumi dei Meridiani, mi sono precipitato a cercare nella biblioteca di casa libri che parlassero dello scrittore. Ne ho trovati solo due. Maupassant e l’«altro» di Alberto Savinio (Adelphi) e Maupassant. La semiotica del testo in esercizio di Algirdas J. Greimas (Bompiani).
Savinio, per bocca del suo alter ego Nivasio Dolcemare, teorizza che lo scrittore sia abitato da un suo Doppio, un «inquilino nero» che lo accompagna fino alle soglie della pazzia: «Finora nessuno dei tanti che si sono occupati di Maupassant aveva detto che a un certo momento in Maupassant nacque un altro Maupassant, e che tanta somiglianza era tra il primo e il secondo Maupassant quanta tra una città buia e una città illuminata, quanta tra un morto sepolto nella terra e un uomo vivo che naviga sul mare, quanta tra una talpa e un’aquila». Per inciso, Maupassant morirà di sifilide e negli ultimi dolorosi anni di vita, i problemi fisici (febbre, dolori di ogni genere, transitorie paralisi) si intrecciano con quelli psichici (amnesie, allucinazioni, difficoltà di ragionamento).
Secondo Savinio, tutta l’opera di Maupassant appare intrecciata di un doppio filo, che ne spiega il fascino contraddittorio, gli improvvisi sbalzi fra un vitalismo robusto e l’angoscia spettrale. Ma anche nelle altre pagine (un’ottantina in tutto), il libricino è ricco di spunti, di illuminazioni folgoranti sullo scrittore: «Due temi dominano la vita e l’opera di Maupassant: la donna e l’acqua. L’acqua Maupassant l’ha amata nelle sue varie forme: marittima, fluviale, balneare, docciaria». Letto Savinio viene voglia di rileggere l’Altro, vale a dire Maupassant.
Forse Savinio, che pure esprime alcune riserve sull’opera del Nostro, potrebbe essere accusato di quell’idealismo intuitivo che antepone il giudizio al metodo. Prima il metodo e poi il giudizio, altrimenti si fa del crocianesimo che riduce l’atto critico a un giudizio intuitivo di valore e determina l’assenza, nei fatti, di un metodo e di strumenti precisi! E qui m’inoltro nella terza motivazione, la più privata e quindi la più marginale. Il libro di Greimas mi ha fatto tornare agli anni dell’università quando andava di moda la semiologia o semiotica, quando si pensava di aver trovato «una macchina da guerra scientifica contro l’ideologia». Secondo Greimas, il semiologo doveva trasformare il senso in significazione, cioè in senso articolato. La scommessa della semiotica consisteva dunque nel trovare i meccanismi di articolazione del senso, qualunque cosa volesse dire.
Ma che grande delusione nel prendere ora in mano Maupassant. La semiotica del testo in esercizio! Certo gli ultimi semiotici spiegano che questo libro non è un’interpretazione semiotico-letteraria di Due amici, nonostante tutto il volume verta sulla celebre e tragica novella che ha per tema l’amicizia fra due sempliciotti parigini sullo sfondo della guerra franco-prussiana del 1870. Greimas non si preoccupa di fornire una interpretazione critica del testo (a parte suggerire, dopo notevoli sforzi, che Maupassant non è da leggersi solo in chiave naturalista ma anche simbolica). Il suo oggetto non è tanto «il testo di Maupassant», né «il testo in quanto letterario» e neppure «il testo in quanto linguistico»: è il testo in quanto Testo. Un Testo, lungo 450 pagine, fatto di isotopie discorsive, di esplicitazione semantica, di investimenti assiologici, di anaforizzazione e di cataforizzazione. Per poi concludere: «L’effetto di senso complessivo prodotto da una simile organizzazione testuale è chiaro: il testo si presenta come un segno il cui discorso, articolato in molteplici isotopie figurative, non sarebbe il significante che ci sta invitando a decifrare il suo significato. Il “simbolismo” di Maupassant sembra allora rientrare in un’attitudine semiotica connotativa che una cultura adotta per prospettare il rapporto, posto come significante, dell’uomo con l’universo». Già, come non averci pensato prima!
Sarò ingenuo, sarò un semiologo pentito, ma un libro così non lo consiglierei mai a chi volesse leggere o rileggere le novelle di Maupassant. Gli consiglierei, semmai, di rivedere Ombre rosse perché, nel finale, c’è un momento, ne sono sicuro, in cui Ringo (John Wayne) uccide Luke Plummer e si accorge (simbolicamente) che l’attore Tom Tyler assomiglia molto a Algirdas J. Greimas.