La Lettura, 21 febbraio 2021
QQAN62 Lo psicoanalista Stoppa parla di giovani e anziani
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Se agli occhi dell’adulto appaiono come le stagioni più fragili dell’esistenza, adolescenza e vecchiaia sono in realtà le due età dell’uomo che più hanno a che fare con il nucleo profondo di noi stessi, con l’affermazione alla vita. Ma sono anche età drammatiche perché devono accogliere i cambiamenti del corpo, (ri)costruire un’identità sociale. Dell’arte di crescere e tramontare scrive lo psicoanalista Francesco Stoppa (Ferrara, 1955) – membro del Forum Lacaniano in Italia, docente all’istituto ICLeS per la formazione degli psicoterapeuti – in Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza (Feltrinelli), un saggio che esplora le due età e descrive la trasmissione intergenerazionale dell’esperienza. A «la Lettura» Stoppa spiega i principali temi del suo lavoro.
Lei definisce la vecchiaia e l’adolescenza come le età del «desiderio»: che significato ha in questo contesto?
«In psicoanalisi, ma non solo, il desiderio non ha a che fare con la soddisfazione di un bisogno, non è la brama d’oggetto. È l’arte di saperci fare con la nostra mancanza, il nostro limite umano, col trovare una modalità creativa di abitare la nostra condizione umana. Ciascuno di noi, se desidera, è posseduto da qualcosa che controlla fino a un certo punto; passiamo la maggior parte della vita a dire di no a questo desiderio, ma per fortuna torniamo sui nostri passi e proviamo ad andare avanti».
Sono anche età della vita che ci costringono a rinegoziare il rapporto con noi stessi. In che modo?
«Sono i momenti in cui, più di altri, siamo chiamati a decidere se dire sì, o no, alla vita. Se occorre dire di sì, è evidente che noi e la vita non siamo fatti l’uno per l’altra, non siamo consustanziali. La vita ci traumatizza fin dalla nascita, ma questa distanza che ci fa soffrire ci dà anche una certa libertà di movimento che ci permette di accoglierla. E queste sono le età del desiderio perché qui la vita si impone e impone una trasformazione per dire sì, se si vuole, a quest’avventura».
Sono anche le età dei «grandi no».
«L’articolazione del sì si sposa con il suo opposto: l’adolescente dice no al potere dell’adulto, al suo desiderio, perché ora si assume la paternità del proprio desiderio. È un no all’ordine costituito per trovare la propria via di accesso alla vita. Il no della vecchiaia è diverso: lo si dice al nostro io per il bisogno che abbiamo di centralità; alla difficoltà che abbiamo di pensare di poter venir meno, non di morire, ma di lasciare spazio, porsi in una posizione di consegna della propria esperienza, di trasmissione. L’arte di crescere dell’adolescente è dire sì alla vita dicendo no alle sicurezze dell’infanzia; il vecchio nel dire di sì alla vita si espone a un’emorragia identitaria che riguarda la propria posizione personale e sociale».
Inoperosità e creatività accomunano queste due stagioni della vita. Cosa significa?
«Sono inoperose perché non sono immesse nella produttività, in particolare la vecchiaia, non perché si smette di fare, ma si smette di dimostrare qualcosa, di emergere. Nel libro faccio l’esempio dell’invecchiamento attivo, cioè quando l’anziano compie la trasmissione in termini creativi, e non di rassegnazione, ponendosi in relazione con le generazioni che vengono dopo: è un momento chiave nella società perché si mantiene la civiltà. L’inoperosità del giovane è legata al fatto che l’adulto lo considera come qualcosa di traumatico e vede il suo essere eccentrico come un fatto di capricciosità; ma per il regolamento delle cose è necessario che ci sia una spinta, anche provocatoria. Per questo l’adolescenza è la patria del desiderio, perché il soggetto si deve ricreare a partire da un corpo che non gli risponde più e deve inventarsi un modo di stare al mondo».
Corpo e sessualità: che ruolo hanno?
«L’adolescente vede innestarsi nel suo corpo di bambino la dimensione adulta e questo assume dei tratti intrusivi, e nei casi più estremi produce depersonalizzazione. A questa età la sessualità diventa ricerca, confronto con l’altro sesso. Jacques Lacan dice che c’è bisogno dell’amore e del parlarsi per venire a patti fra i due sessi; è traumatico, ma questa è anche la sfida vitale, guai se non fosse così! Nel vecchio la dimensione sessuale non è più legata al fisico, ma è fatta d’intese e sfumature, del godimento di conoscersi, dell’aver trascorso brani di vita insieme: è una forma di erotizzazione molto intensa. È l’idea di poter scoprire nell’altro qualcosa che non si conosce mai abbastanza, l’enigma, l’alterità».
Qual è il ruolo dei genitori nel passaggio intergenerazionale e perché lo spiega con «La strada» di Cormac McCarthy?
«Nello sguardo della madre il figlio trova un punto di apertura al mondo, anche se c’è un atto di venir meno: la madre compie il lutto di quello che poteva essere il suo rapporto esclusivo e simbiotico con il figlio. Il padre diventa il terzo che facilita l’emancipazione del rapporto fra i due; il suo ruolo è di portare la legge, che permetterà al figlio di assumersi un proprio desiderio, uscendo da quello incestuoso. Ma non dev’essere un detentore di legge, piuttosto deve sottomettersi alla trasmissione. La strada di McCarthy è esemplificativo: nella scena finale il padre vede nel figlio la promessa di un futuro dell’umano stesso; non prolunga la sua vita nel figlio, ma il suo dono è riconoscerlo come il degno erede».
Cosa avviene in altri modelli di famiglia, come quella monogenitoriale o allargata?
«Le cose si complicano, ma anche le famiglie con entrambi i genitori possono funzionare male. Ci sono padri iperpresenti, puramente generativi, che non lasciano spazio ai figli. Ma sta anche al figlio prendersi la sua eredità, la trasmissione è un lavoro a quattro mani. Anche il ruolo della scuola, o di figure come i nonni, è decisivo: i ragazzi incontrano altri adulti che trasmettono loro la cifra dell’umano, il desiderio, il dire di sì alla vita».
Con la pandemia a quali problemi stanno andando incontro adolescenti e anziani?
«Lo vediamo nel fenomeno delle bande di ragazzini che si danno appuntamento per picchiarsi: il corpo a corpo con i propri simili nell’adolescenza è importante perché ci si conosce anche con la sfida, la rivalità. È la necessità di ritrovare l’altro reale, come se l’altro virtuale lasciasse scoperte delle esigenze fondamentali in un momento della vita in cui il corpo lo sta tradendo e ha bisogno di incontrare quello degli altri per assicurarsi che anche il suo esista. Per l’anziano è meno drammatico, ma ha comunque la necessità di uscire, chiacchierare, trovare una dimensione di comunità per sentire di avere un posto nel mondo. Ma gli anziani sono diventati l’oggetto sacrificale della pandemia e questo dimostra la considerazione che la nostra società ha della vecchiaia».
Gli adulti tendono a emarginare anziani e adolescenti?
«Per la nostra società dell’immagine e della buona forma, la dismorfofobia adolescenziale e l’incrinarsi dei lineamenti del corpo nella vecchiaia sono un’offesa. Più che la morte oggi si teme la vecchiaia perché, come l’adolescenza, rappresenta la trasformazione, che però è la cosa più vitale del mondo. Eppure viviamo in un mondo che ha paura della vita, preferisce congelare tutto nell’eterno presente garantito dalla scoperta della tecnica, della scienza, della chirurgia estetica. Nessuno oggi osa dire di essere vecchio. C’è una zona enorme occupata da diversamente giovani, una situazione di stasi che è mortificante e poco vitale. Molti adolescenti sentono che non c’è spazio per il loro desiderio e per chi fa il mio lavoro è penoso trovarsi di fronte a giovani che vivono di passioni tristi, che non sanno desiderare».
Potenzialità e disagi di queste due età?
«Il disagio non è negativo perché porta in sé domande. E disagio e creatività sono consequenziali: divento creativo se prima c’è una crisi. Da questo punto di vista le due età sono emblematiche: sono le età del disagio e della creatività perché non hanno paura di tenere insieme la crisi e il rilancio, la perdita e la riacquisizione di sé, l’emorragia identitaria a favore di un’identità più complessa. Cito il poeta Pindaro: “Non si tratta di essere sé stessi ma di divenire sé stessi”; saper applicare quest’arte della trasformazione, che in un caso è l’arte di crescere e nell’altro quella di tramontare».