Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 20 Sabato calendario

QQAN70 Sovrani di pietra, anzi dèi

QQAN70

«Il ritratto – scrive Paolo Matthiae nella prefazione a I volti del potere. Alle origini del ritratto nell’arte dell’Oriente antico (Einaudi) – è usualmente considerato un genere che, fin dalla civiltà etrusca, ha percorso tutta la storia dell’espressione artistica del mondo occidentale e che non ha conosciuto che rarissimi, inconsistenti e accidentali precedenti nel mondo orientale antico d’Egitto e d’Asia. Questo giudizio è non soltanto inaccettabilmente sommario, ma soprattutto non è per nulla corrispondente alla realtà».
Siamo abituati a considerare le opere d’arte delle grandi civiltà preclassiche del Vicino Oriente per la loro monumentalità colossale al di fuori della misura umana, per la sua immutabilità nei secoli e nei millenni, per la sua straordinaria fissità nel tempo. In questo fascinoso libro, corredato di splendide fotografie, Paolo Matthiae, con la sapienza dello studioso e la sensibilità critica di chi conosce tutto dell’arte antica, dimostra che quella monumentalità non è del tutto fuori misura; che in quella fissità, sempre, a ben guardare, magari per un minimo dettaglio – la piega delle labbra, la linea delle guance, il disegno degli occhi – si nasconde la figura umana.
Nei tre millenni di storia dell’antico Egitto, il faraone era identificato con un dio celeste. «Dio vero – scrive Matthiae – incarnato, vivo e visibile tra gli uomini a differenza di tutti gli altri dèi, nascosti, figlio del dio solare unico tra gli dèi presente agli uomini per il suo raggiante, breve viaggio diurno... figlio del dio solare, figlio di Ra, quindi divino, poi, dopo la morte, identificato in Osiride, ma anche essenzialmente un mistero, enigmatico, paradossale, forse insolubile», garantiva il benessere, la felicità, la pace. Se il suo potere veniva meno per i disordini o per dei rivolgimenti sociali, o perché i governatori delle varie regioni pensavano di poter intestarsi loro la discendenza divina, il Paese cadeva nel caos. Non era più l’epoca d’oro, nella quale, come sta scritto nelle Lamentazioni di Ipuwer (tradotte dalla grande egittologa Edda Bresciani, recentemente scomparsa), «le mani degli uomini costruirono le Piramidi, si scavavano stagni e si facevano piantagioni di alberi degli dèi, e il desiderio di ogni uomo era soddisfatto da un giaciglio all’ombra». E la nostalgia per lo splendore del passato era feroce. Ma, per la sua rinascita, altro non si poteva pensare se non a un ritorno del re-dio.
Nelle più antiche statue nelle quali è effigiato il volto del faraone, risalenti alla II, III e IV Dinastia, il tentativo di armonizzare l’enigma insolubile, vale a dire l’Assoluto, con le sembianze particolari dei singoli sovrani, è più che evidente: il faraone Djedefra ha occhi mongoli, labbra atteggiate a una espressione burbera; il faraone Chefren, la cui statua alta un metro e 52 centimetri si può ammirare al museo del Cairo, ha il viso bellissimo di un giusto che contempla un punto di mezzo fra la terra abitata dal suo popolo e l’infinito; in tutte le statue che lo raffigurano, compresa quella in cui è fianco di sua moglie stretta in una tunica che mette in evidenza i fianchi e il seno, le guance paffute in un volto magro e il sorriso del faraone Micerino fanno pensare alla sfida di una eterna giovinezza.
Siamo attorno alla metà del terzo millennio a.C. In quegli stessi secoli, nelle immense pianure della Mesopotamia sorgevano città primordiali: Babilonia, Ninive, Nimrod, Ur. Erano «primordiali», perché gli dèi ai quali erano affidate le sorti degli uomini che vivevano fra il Tigri e l’Eufrate volevano creare – ciascuno di loro – una residenza terrena che fosse «lo specchio cosmico delle loro sedi nei cieli e il luogo reale del culto e dei riti che avrebbero garantito la loro vita senza limiti di tempo». I sovrani erano ritratti senza caratterizzazioni identitarie. Governavano l’universo conosciuto, e ne erano consapevoli, come si legge nelle iscrizioni celebrative, ma non volevano distinguersi dai loro sudditi. L’intento che comunicavano agli artisti che scolpivano le loro statue era, scrive Matthiae, «di sollecitare una espressione non eludibile di serena dignità, di indubbia autorità, di regale maestà in chiunque, suddito, alleato o nemico, si trovasse di fronte a una statua votiva in un tempio, a una stele celebrativa in uno spazio urbano o a un trionfale rilievo su un remoto sperone di roccia». Loro erano impegnati in un continuo dialogo con gli dèi, volto a santificare il loro potere e ad assicurare il benessere del Paese; i sudditi spiavano i loro volti per avere la conferma della benevolenza divina. Scrive Hammurabi, il re che unificò l’intera Babilonia, nel famoso Codice che porta il suo nome: «Io ho annientato i nemici a nord e a sud, ho smesso i combattimenti, ho donato la felicità al Paese. Ho fatto che potessero rilassarsi gli inurbati in pascoli verdeggianti. I grandi dèi mi hanno nominato e solo io sono il pastore salvifico dal retto scettro».
Mille anni più tardi, sorgeva il regno degli Assiri che per due secoli sarebbe stato il dominatore del Vicino Oriente. Se fino a quel momento erano state le città a testimoniare la legittimazione divina del regno, adesso i sovrani stabilirono che codesta legittimazione dovesse essere dimostrata dal fasto e dalla magnificenza dei loro palazzi. A Ninive, a Nimrud, ogni re – dal grande Assurnasirpal II a Assurbanipal, «la tipica figura dell’autocrate orientale, tiranno spietato e crudele con i suoi sudditi, signore dissoluto e depravato nell’harem, politico infido e corrotto con gli stranieri» – volle un suo nuovo, sontuoso palazzo. Di quello splendore, rimangono i bassorilievi che ne adornavano le pareti e le mura. Queste opere d’arte – nelle quali dominava il concetto modernissimo della ripetizione (come nelle opere di Andy Warhol), e dove la figura del re era quasi indistinguibile da quella dei sudditi se non per il vestito e la tiara – oltre alla funzione decorativa, assolvevano a quella celebrativa e a quella vera e propria del racconto. Raccontavano le imprese dei sovrani, la sottomissione dei nemici, le battaglie, gli assedi delle città turrite, gli attraver-samenti subacquei dei fiumi, la pace. Una sorta di interminabile «striscia a episodi» nella quale spiccava la caccia al leone e la sua uccisione da parte del re: momento di alto valore simbolico, in quanto garanzia «che il sovrano era sempre in grado di dominare le forze oscure e mai domate del caos, rappresentate in maniera emblematica dalla più feroce e indomabile delle fiere».
Sono capolavori assoluti. Motivo per il quale, quando si capita a Londra, è irresistibile la tentazione di prendersi un pomeriggio libero per tornare ad ammirarli in quello straordinario «magazzino del tempo» che è il British Museum, in cui sono esposti nei corridoi freddi del piano terra, entrando, dopo il guardaroba, subito a sinistra.