Corriere della Sera, 20 febbraio 2021
Un anno di Covid visto da Franco Locatelli
Un anno di Covid. Ricorda come è cominciata?
«Nel tardo pomeriggio di un giorno di febbraio ho ricevuto la telefonata dal ministro Speranza: convocato per una riunione straordinaria. È stato il mio ingresso nel Comitato tecnico scientifico. Eravamo ancora ignari di quanto sarebbe accaduto e di quanto e come la nostra vita da lì a breve si sarebbe rovesciata». Scrive il diario di questi 12 mesi Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di sanità, oncoematologo del Bambino Gesù.
La sua vita professionale e privata come è cambiata?
«Profondamente, gli impegni istituzionali sono stati e sono tutt’ora numerosi. Per non sacrificare del tutto l’attività di oncoematologo pediatra, alla quale non ho voluto rinunciare, mi ci sono dedicato nei momenti in cui ero libero. La notte, l’alba, orari non canonici. Per provare a offrire un servizio al Paese ho dovuto studiare e aggiornarmi in modo costante. Dovevo acquisire una specifica e approfondita competenza che non rientrava nel mio bagaglio culturale. Sono stato aiutato dal lavoro di gruppo».
Ci sono stati momenti in cui ha temuto che non ce l’avreste fatta?
«No, non l’ho mai temuto, ho sempre avuto fiducia nella scienza e nelle persone. Al tempo stesso, però, era evidente che ci si confrontava con un virus che non conoscevamo, così come poco conosciute erano le manifestazioni cliniche della malattia. Da osservatore privilegiato, ho potuto rendermi conto di quanto imponente è stato lo sforzo per sperimentare nuovi trattamenti e per arrivare alla produzione di vaccini in meno di un anno dalla scoperta del virus. Certo, assistere alla crescita della curva dei contagi e, soprattutto, dover quotidianamente contare tante vittime è stato durissimo. Il giorno più triste? Il 27 marzo quando abbiamo toccato il picco dei decessi. E poi il 3 aprile, con i letti delle terapie intensive occupati come mai era successo prima».
E il momento più bello?
«Il 27 dicembre, giorno del “vaccine-day”. Il coronamento di 9 mesi di sforzi della ricerca, senza precedenti nella storia. Il primo grande raggio di luce che ci ha permesso di intravvedere all’orizzonte la normalità non più solo come un traguardo lontano. Il V-day è stato anche il giorno in cui si è apprezzato concretamente quanto bisogna credere nella ricerca e dedicarle tutte le risorse necessarie».
Che cosa le ha insegnato questa esperienza?
«La pandemia ci ha dato una lezione. Investire in sanità significa garantire che eventi così catastrofici possano essere contenuti non solo in termini di vite perse, ma anche per attutire quanto più possibile il drammatico impatto economico e sociale. Eppoi ho scoperto tante persone, quelle con cui ho lavorato. Il senso di responsabilità condiviso e il carico di emozioni si è coniugato al privilegio di potermi mettere al servizio del Paese ogni giorno. Tutti, io per primo, dobbiamo riscoprire il significato profondo della parola servire».
Quando torneremo alla normalità che sfizio si toglierà per primo?
«Oltre a riprendere la mia normale vita di oncoematologo pediatra a tempo pieno, la prima cosa che farò è ritornare agli abbracci, soprattutto con i bambini. E poi mi farò un regalo, andare al cinema e a teatro».
La tristezza è stata la sua compagna?
«Lo è stata spesso. Anche oggi, quando apprendo il numero delle persone che perdono la vita, vengo preso da una tristezza profonda che ha avuto il suo apice guardando le immagini dei camion militari che lasciano Bergamo carichi di bare. Impossibile non pensare che se ne è andata una parte importante e un patrimonio unico di questo Paese, gli anziani, la nostra memoria e coloro che ci hanno garantito dal dopoguerra a oggi di vivere un periodo mai così lungo di pace e di sviluppo per l’Italia».
Ha mai pianto?
«Pochissimi giorni fa ho perso, a causa del Covid-19, un amico e collega, il professor Giuseppe Basso di Padova, con cui ho condiviso la passione per provare a guarire un numero sempre più alto di bambini affetti da tumore. Tanti momenti trascorsi insieme mi sono tornati in mente. Sì, ho pianto».
Una persona che le è rimasta nel cuore.
«Ne potrei menzionare tante. Colleghi del comitato tecnico, medici e infermieri che hanno assistito i malati di Covid-19, condividendo con loro la gioia della guarigione. Ma anche sopportando il dolore della perdita quando l’esito non è stato quello auspicato. Mi chiede un nome? Il colonnello Paolo Storoni, ex comandante provinciale dei carabinieri di Bergamo, un vero servitore dello Stato. Nei giorni più drammatici ci siamo spesso sentiti. Ha dimostrato non solo passione e determinazione assoluta, ma anche la capacità di spendersi in numerose attività per aiutare le persone di quell’area così martoriata. Fu lui a garantire la consegna delle bombole di ossigeno a chi soffriva di grave insufficienza respiratoria. Il nostro Paese dovrà ricordarsi anche di questi “eroi del quotidiano” che, lontani dai riflettori, sono stati imprescindibilmente utili».