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 2021  febbraio 20 Sabato calendario

La scuola parli italiano

Tutti gli italiani di qualunque orientamento ideologico, ma proprio tutti, incluso sono sicuro il nostro presidente del Consiglio, anche quando abitava a Francoforte, continuano a chiamarla «scuola elementare». Solo l’organizzazione ministeriale di viale Trastevere, i suoi funzionari, e un manipolo di addetti ai lavori invece, avendo deciso una trentina d’anni fa che bisognava chiamarla «scuola primaria», continuano imperterriti da allora a chiamarla così. 
D irei che già solo questo fatto – un Paese in cui i cittadini designano la scuola con un nome mentre la burocrazia ne adopera un altro virtualmente sconosciuto ai primi – indica bene il drammatico scollamento che a proposito dell’istituzione scolastica esiste in Italia tra «Paese legale» e «Paese reale». Indica bene come il primo si sia abituato a procedere in un’indifferente autoreferenzialità, tutto preso dalla cultura a cui da tempo s’ispira: una cultura vuota e formalistica, lontana dalla vita, abituata ad adottare ossessivamente gergalismi e termini inglesi con cui infarcire i propri interminabili documenti. Resi tali dalla particolare tecnica con cui sono abitualmente redatti, che potrebbe definirsi delle «scatole cinesi». Nei quali, cioè, ogni termine impiegato viene immediatamente seguito da una sua più o meno ampia definizione-spiegazione, ogni termine della quale è a sua volta sottoposto al medesimo procedimento, e così via in una successione che potenzialmente non ha mai fine. 
Tra i documenti in questione merita di essere segnalato quello uscito un paio di mesi fa, tipico tra l’altro della sarabanda infernale di ordini e contrordini di cui si compiace da sempre la pubblica amministrazione italiana. In questo caso si tratta delle valutazioni di merito (dico merito a mio rischio e pericolo essendo il termine aborrito dall’ideologia del Ministero per la sua presunta connotazione discriminatrice), da adottare nella scuola elementare. Fino al 1977 tali valutazioni erano espresse, come si sa, con un numero, i famigerati voti dall’1 al 10. Da quell’anno, invece, i numeri, giudicati didatticamente troppo sommari e psicologicamente deprimenti, furono sostituiti con i «giudizi» verbali, adeguatamente personalizzati e quindi democratici (anche se nell’uso furono ridotti in breve a un repertorio di tre quattro formulette sempre le stesse). Inevitabilmente però, fatta la rivoluzione scattò immediata la controrivoluzione. E quindi non so più quale ministro della Vandea un bel giorno reintrodusse i voti. Trascorsi tuttavia alcuni anni, adesso si è deciso finalmente di porre fine allo sconcio: e pertanto di nuovo via i voti e di nuovo avanti con una inedita classificazione, articolata questa volta secondo la categoria dei «livelli di apprendimento». 
D’ora in avanti perciò il «documento di valutazione» in uso nelle scuole elementari (chiamarlo ancora «pagella» equivale più o meno a dichiarare la propria iscrizione al partito nazista) indicherà uno dei seguenti quattro «livelli di apprendimento» raggiunti dall’alunno: avanzato, intermedio, base, e in via di prima acquisizione (si noti la patetica perifrasi buonista pur di non usare aggettivi terribili come «insufficiente», «scarso» o che so io; insomma pur di non chiamare le cose con il loro nome che è la prima regola della lingua che si parla a viale Trastevere). 
Della quale forniscono un esempio preclaro le definizioni che il documento ministeriale dà di ognuno dei suddetti livelli. Per non farla troppo lunga mi limito a riportare la definizione del primo livello (alunno più bravo) e quella dell’ultimo (alunno meno bravo). Dunque, livello avanzato: «l’alunno porta a termine compiti in situazione note e non note, mobilitando una varietà di risorse sia fornite dal docente sia reperite altrove, in modo autonomo e con continuità». Chiaro no? Forse non tanto direi: che cosa si deve intendere infatti per «situazioni note e non note»? E che cosa è «la mobilitazione di una varietà di risorse»? Se si voleva dire (come suppongo, ma vattelappesca) che il bambino «mostra di padroneggiare quanto gli è stato insegnato e di saper allargare da solo il campo delle proprie conoscenze», non si poteva dirlo più o meno in questo modo? Che senso ha che domani, alla richiesta di spiegazioni del povero genitore di un alunno che va un po’ così così, un immaginario docente se ne esca magari a dire: «Sa, suo figlio è a un livello di prima acquisizione, porta a termine compiti solo in situazioni note e ha bisogno di risorse fornite appositamente»? E anche se queste definizioni in «pedagogichese» puro fossero ad uso esclusivo di chi nella scuola insegna, perché, mi chiedo, questa eterna maledizione italiana di una burocrazia che gode ad adoperare un linguaggio iniziatico ogniqualvolta redige un documento, a fare il sopracciò nei confronti del senso comune?
Da poche ore alla testa del ministero dell’Istruzione c’è un ministro, il professor Patrizio Bianchi, che ha fama di avere le competenze di un «tecnico». È osare troppo sperare che tra queste competenze vi sia anche quella di ragionare con i piedi per terra e di parlare e scrivere in italiano? E visto che c’è anche di riuscire di convincere il suo ministero a fare altrettanto?