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 2021  febbraio 20 Sabato calendario

3QQAFA!0 Sul nuovo romanzo di Juan Carlos Onetti

3QQAFA!0 

È inutile che mi metta a riassumere la trama de Il cantiere, anche perché non sono del tutto sicuro di averla capita, di averla afferrata per intero. Ecco, sì, vi si narra di un cantiere navale in stato di abbandono, e di un fallimento in cui occorre salvare il salvabile per non finire sul lastrico o in galera. Ci sono nell’aria ricatti, promesse, tentazioni, seduzioni, imbrogli: ma questo è lo stato delle cose, non la storia. Lo spirito, invece, la temperatura del libro, e il profilo cavalleresco del suo protagonista credo di averli colti o meglio di esserne stato colpito, schiaffeggiato; e soprattutto mi ha lasciato di stucco la scrittura di Juan Carlos Onetti. Le singole frasi, i paragrafi, i capitoli, si farebbe prima a dire il libro intero. Una volta tanto, a proposito di uno scrittore, bisognerà pur parlare di come scrive, o no?
Saranno almeno dieci anni, o forse più, che non provavo tanto stupore e ammirazione. Si potrebbe applicare a Onetti quel che si diceva del cantante di tango franco-argentino Carlos Gardel, che «non concepiva cosa più alta di migliorare la propria espressione». Migliorare il talento grazie al talento, alzare il livello del mestiere fino a dove non è più un mestiere, creare una inaudita scorrevolezza che però non sia frutto di alcuna rinuncia o semplificazione. Prosodia impeccabile e spirito malinconico diventano un’unica cosa presso lo scrittore uruguayano.
«Tutti i personaggi e tutte le persone sono nati per la sconfitta. Certo, uno può arrestare la traiettoria di un personaggio in un istante di trionfo, ma se continuiamo, il finale è sempre Waterloo». Già, il finale sarà sempre e comunque Waterloo. Per un riflesso condizionato, siamo soliti collegare alla letteratura e al cinema nordamericani questa figura disincantata di loser, tutta cinismo romantico, aspirazioni sbriciolate, desolazione di bar dove uomini e donne mandano giù bicchieri in solitario, quando in realtà l’immagine diviene ancora più nitida e struggente se rovesciata sulla latitudine opposta, dal versante latinoamericano, dove i fiumi sono persino più fangosi, le pozzanghere non si asciugano mai e le sigarette pendono implacabili dall’angolo di sorrisi a denti stretti. È piuttosto quello australe il mondo della disillusione assoluta, amara, risibile ed epica al tempo stesso, e Larsen è il perfetto cavaliere del nulla, il Mitchum del Río de la Plata, la cui avventura principale consiste tutta in un unico verbo: barcamenarsi. Cioè avere un obiettivo comunque vago e mediocre, e per conseguirlo essere costretti a fare la spola tra ambienti sordidi e individui loschi, sul punto di andare in malora o già ben oltre quel punto, e poi donne che si dibattono nelle fauci della loro femminilità come se questa fosse un serpente che le inghiotte vive, tentando di uscirne non disonorato, o almeno non completamente. Insomma un Eddie Coyle (prego di rivedere il film di Peter Yates): la negligenza con cui Larsen lo porta addosso, fa del suo revolver un attrezzo scontato e in definitiva superfluo, di cui prima o poi ci si stufa «di far girare il tamburo vuoto, e di passare in rivista le pallottole sul tavolo».
Se il finale sarà per forza Waterloo, diciamo che in questo romanzo siamo la sera prima di Waterloo, o nelle settimane precedenti alla disfatta che però la annunciano in ogni singolo desolato dettaglio e dunque vengono vissute con un’allegria funebre e guascona, quella di chi è votato al fallimento non per mancanza di virtù individuali, ma perché le virtù individuali non servono a nulla quando hai definitivamente smesso di pavoneggiarti. Non attaccano più, non fanno presa su un mondo che se ne frega altamente se sei sveglio, coraggioso, intraprendente, in fondo in fondo leale, perché intanto andrai in malora esattamente come gli altri che sono stupidi e meschini. Lo spirito cavalleresco di Larsen finirà dunque per riassumersi in un «al diavolo!» che non ha più nulla della posa eroica. Se è vero che ci sono due modi di andare in rovina, e cioè di colpo o lentamente, quello che tocca a Larsen è romanzesco dunque lento (i romanzi sempre lo sono), progressivo, a spirale, e permette a Onetti di srotolare una serie di incontri elusivi, di pasti frettolosi e sbronze, di sguardi cocenti su dettagli femminili, di vagabondaggi tra pozze e veli di umidità, o negli anfratti abbandonati di questo cantiere navale, miniera di utensili e scartoffie, porto delle nebbie, tra montagne di faldoni marciti, ufficio a momenti persino fantozziano (mi perdonino i puristi delle diverse scuole), in una ininterrotta e malinconica ricapitolazione di ciò che l’uomo Larsen era stato, avrebbe potuto essere, e non riuscirà a essere mai più. Ha vissuto troppo e troppo male, Larsen, per essere sinceramente interessato ad approfondire un qualunque ulteriore aspetto dei rapporti umani, sia esso erotico, economico o morale. Juan Carlos Onetti è forse lo scrittore più crudele e spaventosamente sensibile e intelligente della condizione che definiamo disincanto. Così intelligente da saper creare un nuovo incanto da una tale desolata presa d’atto. E questo (torniamo alla base) si deve solo ed esclusivamente alla sua scrittura.
Mentre lo leggevo, complice lo sfiancamento del virus planetario, confesso che non riuscivo a portare a termine più di quattro o cinque pagine di seguito, tanto mi saturavano di ammirazione, tanto ero furiosamente impegnato a piegare orecchiette all’angolo delle pagine, a sottolineare singoli periodi e poi interi paragrafi, rendendomi infine conto che avrei dovuto a rigore sottolineare tutto, tutto il libro. (Una volta terminato, le conterò, le note a margine e le frasi contrassegnate: sono settantanove...!) E non si tratta affatto di uno stile, cioè di quella riconoscibilità relativamente facile da replicare e imitare, che per uno scrittore rappresenta soltanto un limite, una maniera, una comoda sigla e in definitiva un tic, di cui Alfred Hitchcock diceva infatti, con sprezzatura: «il cosiddetto stile non è altro che un plagio di sé stessi». L’uruguayano non è soltanto un virtuoso che ha trovato la formula giusta: le sorprese non si esauriscono dopo qualche pagina, anzi si infittiscono fino a saturare di totale imprevedibilità ogni episodio, che è sempre al tempo stesso la narrazione di un accadimento e la narrazione di come questo accadimento riesca quasi per miracolo a essere narrato, variando senza fine la gamma di possibilità espressive dalla più ovvia alla più sofisticata (Onetti è uno scrittore dal periodare incredibilmente elastico), fino a costituire quello che un tempo, con entusiasmo avveniristico, veniva definito un «ipertesto» o una «politopia»: un discorso cioè che include e trascina con sé ogni sua possibile variante, che si moltiplica su ogni lato, da ogni interstizio, insomma, una specie di idra sintattica che ricresce raddoppiata ogni volta che la punteggiatura prova a contenerla, tagliandone la testa con un punto fermo. Oltrepassato il quale, la prosa di Onetti riparte implacabile, guizzante, contorcendosi sotto la scarica delle sue invenzioni.
Vorrei segnalarne qui soltanto una, davvero sorprendente: l’uso deviato e straniato degli aggettivi, che non è in verità un uso ma nemmeno un abuso, tantomeno una stramberia, bensì una sorgente di verità ulteriore sul linguaggio, cioè sulla principale risorsa di cui noi uomini disponiamo per rendere la nostra vita meno monotona. Così, a orlare con nonchalance le avventure di Larsen, si registrano, frequenti e sprecate quanto i riff in un assolo di Frank Zappa (che presi a sé potrebbero costituire un’intera canzone), miriadi di qualificazioni bizzarre quanto rivelatorie: ecco che il vento è «indifferente» o «balbettante», le candele sono «vendicative», la pioggia «svogliata», un aroma «vigliacco», una faccia «recondita», perfino una porta «convincente». Il paradiso è «calmo, invernale, materno». L’innocenza «preoccupata», il trionfo «inservibile». Con queste torsioni, Onetti crea di continuo una sfocatura di significato che ci porta fuori dai sentieri confortevoli della narrativa convenzionale e dai suoi margini fissi, verso altri punti di vista, in parallasse rispetto a quelli consueti. Persino quando sfiora i cliché del genere noir, la favola onettiana vive di una sua autonomia verbale, limpida e incantatoria, che diventa essa stessa la favola del raccontare, con gli elementari piaceri che ne derivano: raccontandola, ma soprattutto ascoltandola. Insomma, Larsen potrebbe andare a zonzo all’infinito e noi continuare a seguirlo fedelmente, mentre nel cantiere prosegue l’opera impercettibile e graduale del disfacimento, i suoi uffici e le officine sono lì a corrodersi e marcire sotto il peso delle inadempienze, scendendo ancora di un pollice nella scala del degrado, di cui non si vede il fondo. Lo stato quasi di trance in cui veniamo indotti può essere effetto della paratassi accumulativa, infine spezzata da una relativa, da una modale o da una temporale, con cui Onetti incede. Questa cadenza serve a portarci senza accorgercene fino a un punto in cui l’onda si frange in una o più sentenze memorabili che il personaggio romanzesco serbava per noi fin dall’inizio del libro, attendendo di consegnarle alla pagina e quindi azzittirsi. Solo verso metà del romanzo, conversando col dottor Díaz Grey, il laconico Larsen se ne uscirà con un pensiero che è un paragrafo di filosofia purissima, più significativo di dieci tortuose pagine di Heidegger sull’essere-per-la-morte:
La vita non è altro che questo, ciò che tutti vediamo e sappiamo E questo ha un significato chiaro, un significato che la vita non ha mai cercato di nascondere e contro il quale gli uomini lottano stupidamente fin dall’inizio con parole e ansie. E la prova dell’incapacità degli uomini di accettarne il significato è che la più incredibile di tutte le possibilità, quella della nostra stessa morte, è per la vita semplice routine; un fatto, sempre e comunque, già acquisito.
La morte è un fatto «già acquisito». Di qui l’asciuttezza notarile con cui l’autore annuncerà quella del suo dolente e magnifico personaggio in due frasi sbrigative, proprio in coda al libro, una chiusura sincopata come un singhiozzo. «Morì di polmonite a El Rosario...»
E prima che ce lo scordiamo, questo meraviglioso modo di scrivere (quasi volessimo tornare padroni di noi stessi dopo esserne stati incantati), ricopio qui pari pari uno dei tanti esempi di quello che si potrebbe definire il «paragrafo perfetto», sogno di ogni scrittore e godimento assoluto per chi legge. Forma semplicissima, minuziosa e al tempo stesso audace: non si tratta che di una serie di azioni e non-azioni incatenate l’una appresso all’altra, un lungo piano sequenza con panoramica fluviale. La matinée di uno sfaccendato.
Da quanto si seppe, due giorni dopo il suo ritorno, Larsen uscì di buon’ora dalla pensione e si avviò lentamente a piedi – accentuando, per chi sapeva riconoscerli, il dondolio, il rumore di tacchi, la mole, quell’espressione condiscendente, di chi fa favori e rifiuta ogni gratitudine – sulla rambla deserta, fino al molo dei pescatori. Aprì il giornale per sedercisi sopra, fissò il profilo nebuloso della costa davanti, il viavai di camion sul piazzale della fabbrica di conserve di Enduro, le barche da trasporto e quelle lunghe, leggere, spinte da un’incomprensibile urgenza che si staccavano dal circolo dei canottieri. Senza lasciare la pietra umida del molo, pranzò con pesce fritto, pane e vino, che gli vendettero dei ragazzini scalzi, insistenti, ancora vestiti dei loro stracci estivi. Assistette all’arrivo del traghetto e alle operazioni di scarico, esaminò svogliatamente le facce del gruppo di passeggeri; sbadigliò, tolse dalla cravatta nera la spilla con la perla per pulirsi i denti. Pensò alla morte di certe persone e questo pian piano lo riempì di ricordi, di sorrisi sprezzanti, di frasi fatte, di tentativi di correggere destini altrui, in genere confusi, irreversibili, fin verso le due del pomeriggio, quando si alzò, passò due dita bagnate di saliva sulla riga dei pantaloni, raccolse da terra il giornale uscito la sera prima a Buenos Aires e si mischiò alla gente che scendeva la scalinata per salire sul battello bianco, coperto da un tendale, che avrebbe risalito il fiume.
Ah, che meraviglia!
Ecco, in compagnia di questo romanzo, prendendolo e riprendendolo e riprendendolo ancora, è accaduto dunque a me quello che Onetti diceva di William Faulkner: «Inizio a leggerlo, poi sono costretto a smettere, perché è bravo, troppo bravo», maledetto scrittore! E dire che tutto era già saputo in anticipo, forse dalla prima pagina o dalla prima riga: eppure di questa amara consapevolezza non sapeva cosa farsene Larsen e non sappiamo purtroppo che farcene noi. Siamo sempre in bilico sull’orlo della verità, e dunque dell’annientamento.
«Non ci sono sorprese nella vita, sa», dice a Larsen il dottor Díaz Grey. «Quello che ci sorprende è proprio quello che conferma il senso della vita».