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 2021  febbraio 20 Sabato calendario

49QQAFM11 Intervista a Anne Holt

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«Per un lungo periodo, sono rimasta lontana da mia moglie e nostra figlia per prendermi cura dei miei genitori che vivono in campagna. La gente pensa che la pandemia non abbia inciso più di tanto sugli scrittori, perché eravamo abituati a stare in casa. Ma siamo anche persone, con genitori, figli e amici per i quali ci preoccupiamo costantemente». Anne Holt ha 62 anni ed è una degli scrittori di crime più famosi della Scandinavia. Ha incominciato questa carriera nel 1993 dopo averne abbandonate altre tre: giornalista per la Nrk, la tv pubblica norvegese, avvocata e politica, con una breve esperienza come ministra della Giustizia. La tormenta, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia (a oggi ne ha scritti più di venti), ha per protagonista l’investigatrice privata cinquantenne Selma Falck, una donna tostissima, e segnatissima, che fisicamente assomiglia a Mariska Hargitay, l’attrice che interpreta la detective Olivia Benson in Law & Order. E questo non è né un dettaglio né una coincidenza: se c’è una cosa di cui Holt è una vera fanatica sono proprio le serie tv.
Anne, la Norvegia è uno dei Paesi meno colpiti dal virus. Come mai?
«Per vari motivi. Innanzi tutto il governo, grazie al petrolio (la Norvegia è uno dei maggiori esportatori nel mondo, ndr), ha avuto a disposizione ingenti risorse per aiutare le persone danneggiate dalla crisi. Inoltre, tra cittadini e istituzioni esiste un rapporto di fiducia tale per cui le politiche di restrizione sono state rigidamente rispettate. Questo, sommato all’alto livello di istruzione e all’alto tenore di vita, che ha reso più facile attenersi al distanziamento fisico, ha fatto sì che finora abbiamo avuto meno di 600 vittime».
Tempo fa scrisse: «Se volete conoscere un Paese che non avete mai visitato, procuratevi un romanzo crime e una rivista di arredamento». Perché?
«La crime fiction di un certo Paese ne riflette i valori sociali, i lati chiari e quelli oscuri. Uno dei motivi per cui i crime scandinavi sono diventati così popolari in tutto il mondo è perché mostrano che, nonostante la ricchezza e l’organizzazione interna, anche qui avvengono crimini efferati, e ne indagano le motivazioni psicologiche. In questo senso, trovo illuminanti anche le riviste di arredamento, perché da come le persone arredano le proprie case è possibile capire moltissimo del modo in cui vivono. In Norvegia, per esempio, spendiamo moltissimi soldi per abbellirle, sia perché vi trascorriamo moltissimo tempo, sia perché qui è tradizione essere proprietari dei posti in cui abitiamo».
Lei scrive libri molto politici. Perché?
«Quando scrivo, voglio farlo su argomenti che mi interessano, e la politica è l’argomento che mi interessa più di tutti perché la politica è la scienza di come organizziamo le nostre società. Quando ho iniziato, nel 1993, tendevo a dare molte più risposte, ora sono soddisfatta quando riesco a sollevare delle domande».
Qual è secondo lei il ruolo che deve avere oggi uno scrittore?
«Scrivere la verità, anche in maniera narrativa, ed è un consiglio che do a tutti, giornalisti compresi. Io credo che se c’è un’emergenza ancora più importante della pandemia o della crisi climatica, è proprio combattere per la verità».
Il rapporto tra verità, notizia false, odio online e violenza è uno dei temi principali di "La tormenta". Non è la prima volta che riesce a "prevedere" eventi che poi si verificano: le era capitato anche in "Quello che ti meriti", nel quale aveva intravisto il MeToo. Come se lo spiega?
«Quando si scrivono le cose che scrivo io, si devono tenere le dita sul polso della società. Come scrittrice, sento l’obbligo di documentarmi a fondo sulla politica, sui movimenti, su tutto quello che non va nella società, e quando passi molto tempo a fare queste ricerche viene da sé che riesci a intuire quello che potrebbe accadere. La domanda che mi faccio costantemente è: "Che cosa succederebbe se…?". In La tormenta, che ho scritto ormai tre anni fa, il focus era proprio la "non verità", le teorie cospirative e l’impatto negativo dei social media».
Quindi l’assedio a Capitol Hill dello scorso gennaio non l’avrà colta di sorpresa.
«È stato surreale, ma non mi ha stupita. Qualche settimana prima avevo detto ad amici che quell’atmosfera sarebbe sfociata in un’azione violenta. Ascoltando con attenzione le parole di Trump, si capiva chiaramente che il suo scopo era quello».
Le manca la politica attiva?
«Assolutamente no. È un mestiere difficilissimo, non molto ben pagato e in cui si diventa bersaglio dei social: dovremmo essere felici che ci sia ancora qualcuno che voglia farlo. Fare la scrittrice è molto più semplice».
Ha mai ricevuto minacce?
«Ogni persona conosciuta può riceverne, ma devo dire che negli ultimi 10 anni sono stata lasciata in pace. Aggiungo anche che conduco una vita piuttosto isolata e non sono molto attiva sui social».
In "La tormenta" c’è un bel personaggio, Mina, figlia, con la passione per la politica, di un ambiguo ministro della Giustizia. Ha preso ispirazione dalla sua di figlia?
«No, mi ucciderebbe! Mi ha proibito di scrivere qualsiasi cosa che la riguardi. Però uno dei vantaggi di avere una teenager in casa è che mi ha dato una mano nelle parti che riguardavano i social, il linguaggio e la mentalità dei ragazzi. Mia figlia, che è una ballerina classica, si diplomerà questa estate e ci ha già chiesto di potersi prendere un anno sabbatico per venire in Italia, Covid permettendo, per studiare la lingua e danza. Da grande, però, dice di volere fare l’avvocata, come Mina, e sono certa che sarà bravissima».
Il prossimo 22 luglio saranno 10 anni dal massacro di Utoya, quando il fanatico neonazista Anders Breivik uccise 69 ragazzi di un campo estivo della gioventù laburista. Poco dopo la tragedia, lei scrisse che Breivik era "uno di noi", nel senso che le sue opinioni erano condivise da centinaia di migliaia di persone in Norvegia. Pensa che oggi la situazione sia peggiorata?
«Sfortunatamente, e lo abbiamo visto da poco negli Stati Uniti, il movimento dei suprematisti bianchi è più forte di quello che si pensava. È difficile dire se questi gruppi stiano davvero crescendo o se si stiano soltanto organizzando meglio. Il fatto è che esistono, sono lì fuori. E quando si guarda a ciò che avviene in Paesi come Ungheria, Polonia o Russia, si capisce che la fotografia che restituiscono è la stessa, e che nazionalismo, suprematismo e movimenti anti-omosessuali sono tutti strettamente legati all’ideologia che ha mosso Breivik».
Dopo quasi 30 anni, che cosa ha imparato sulla scrittura?
«Forse conosco un po’ meglio la tecnica, ma più il tempo passa più provo rispetto per questo mestiere così difficile. Ogni volta che finisco un libro mi stupisco di avercela fatta ancora una volta e mi chiedo se sarò in grado di scriverne un altro. Spero solo di essere un’autrice migliore di quella che ero all’inizio».
So che lei è una fanatica di serie tv. Ne ha una preferita?
«Ne vedo così tante che è difficilissimo scegliere, avrò l’abbonamento ad almeno 10 piattaforme di streaming! Dormendo 4 o 5 ore per notte ho tantissimo tempo da far passare, tempo che dieci anni fa passavo leggendo. Ultimamente sto guardando la serie britannica It’s A Sin, che racconta l’epidemia di Aids degli anni Ottanta. La trovo fantastica. Ai tempi avevo una ventina d’anni e ricordo che l’Aids non veniva considerato un problema di tutti, ma esclusivamente degli omosessuali maschi. Anche adesso, c’è chi pensa che la pandemia sia un problema degli anziani. Quando qualcosa ci minaccia, abbiamo la tendenza ad allontanarlo sostenendo di non esserne noi l’obiettivo, ma qualcun altro. Guardare quella serie ci ricorda che quando qualcosa minaccia qualcuno di noi, allora ci minaccia tutti quanti».