La Stampa, 20 febbraio 2021
Graviano si dissocia da Cosa nostra
Filippo Graviano, boss della famiglia mafiosa di Brancaccio (quella della strage Borsellino e degli attentati di Roma, Milano e Firenze), si dissocia da Cosa Nostra. La notizia, per nulla irrilevante nel panorama della strategia mafiosa tesa a vanificare le conseguenze del carcere duro (il 41 bis) e a spianare la strada a una possibile scarcerazione dei mafiosi, anche quelli condannati all’ergastolo con sentenza definitiva, è contenuta in una nota del settimanale l’Espresso, che anticipa un articolo del suo vicedirettore Lirio Abbate.Quello, dunque, che in qualche modo si paventava già da tempo, cioè che fosse in atto una strategia mafiosa per vanificare il 41 bis e depotenziare le conseguenze degli ergastoli confermati in Cassazione, si sta avverando e Filippo Graviano sembra giocare il ruolo di protagonista.Il boss, condannato per l’omicidio di don Pino Puglisi, per la strage Borsellino e per gli attentati del ‘93 compiuti fuori dalla Sicilia, ha chiesto un permesso premio al giudice di sorveglianza del Tribunale dell’Aquila, ma ha preteso che fosse anche verbalizzata la sua decisione di «dissociarsi dalle scelte del passato». A quel punto i magistrati hanno cercato di andare un po’ più a fondo facendogli intendere di tenere nella giusta considerazione la sua svolta, ma, nello stesso tempo, di essere interessati ad ottenere notizie sulle stragi e sul coinvolgimento in quelle vicende di personaggi politici, per esempio Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Questi nomi, d’altra parte, sono stati tirati in ballo non da uno qualsiasi, come avvenne per il pentito Gaspare Spatuzza, ma addirittura da Giuseppe Graviano, fratello minore di Filippo, durante le “passeggiate”, nel carcere di Ascoli Piceno, col compagno di detenzione Umberto Adinolfi. Quegli “sfoghi” furono interpretati dagli investigatori come dei “segnali” ricattatori nei confronti di Berlusconi, a cui i Graviano rimprovererebbero scarso impegno nel tentativo di tirarli fuori dal carcere e dai guai.
Ovviamente il colpo di scena messo in atto da Filippo Graviano, in qualche modo, completa la “sceneggiata” iniziata da Giuseppe e in nessun modo può esser considerato un inizio di “pentimento”. Semmai una specie di tentativo “apripista” per tornare ad un vecchio pallino di Cosa nostra: la “dissociazione dolce”, cioè ammettere una buona volta l’appartenenza alla mafia, ma senza accusare nessuno e senza apportare luce in favore degli sforzi di ricerca di verità e giustizia. Il momento scelto da Graviano non è dei peggiori, alla luce dei recenti (2019) pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale allora presieduta ma Marta Cartabia, oggi ministro della Giustizia. Quelle sentenze in pratica annullavano gli effetti dell’ergastolo ostativo, che non consentiva la concessione di alcun beneficio ai detenuti, in particolare mafiosi e terroristi, che non avessero offerto collaborazione alla magistratura. La Corte Costituzionale, nel 2019, ha invece indicato ai giudici la strada “di perseguire le finalità rieducative del condannato, calibrando ogni decisione sul percorso di ogni detenuto alla luce di tutte le conseguenze concrete...”. Spetterà, dunque, ai giudici di sorveglianza stabilire se il detenuto ha realmente tagliato i ponti col suo passato e con l’organizzazione criminale di appartenenza e se si è realmente redento. Accertamento non facile alla luce della particolare versatilità dei mafiosi nel recitare la parte del detenuto modello e mettere in atto raffinate strategie manipolatorie. Senza contare l’effetto collaterale rappresentato dalla iperesposizione dei giudici di sorveglianza, costretti a decidere “da soli” cioè senza più il conforto di una norma certa qual era l’ergastolo ostativo. Senza contare – inoltre – un aspetto non secondario: molti magistrati di sorveglianza operano in un territorio distante dalle dinamiche mafiose e non tutti hanno dimestichezza con le mille risorse di cui può disporre Cosa nostra. In tempi non troppo lontani, lo sottolineava anche Giovanni Falcone citando gli atti della Commissione antimafia, per migliorare la propria condizione carceraria, i boss cercavano di “arrivare” proprio ai magistrati di sorveglianza. Ma quelli, si potrà dire, erano altri tempi.