Lei è nata a Trieste?
«Sì, nel 1930. Ho avuto un’infanzia tranquilla, all’ombra di una borghese famiglia triestina. La scuola elementare pubblica, nel quartiere del porto, le mie compagne in gran parte figlie di mamme assai libere e io, costantemente prima della classe ma con un senso di subalternità verso gli adulti, per la gran parte votati all’inculcamento ideologico. Ricordo per contrasto mio nonno, liberale e abbonato alla viennese Neue Freie Presse. Ma ricordo anche, con una certa desolazione, la maestra che punendomi, in realtà puniva la nipote di una nonna ebrea; puniva la bambina calata nel milieu antifascista che rimpiangeva l’impero di Franz Joseph».
Nostalgia per la Mitteleuropa, così ben raccontata dai romanzi. Lei cosa leggeva da piccola?
«Soprattutto libri tedeschi su storie di animali. C’era un’editoria per bambini molto bella. A tre anni mi affiancarono una fräulein austriaca e a sei ho cominciato a scrivere il gotico tedesco, che nel 1936 fu sostituito dal carattere latino. Avevo un dizionario, in gotico tedesco, che mi regalò mio nonno. Tutto parlava in quella lingua.
Perfino le bambole in celluloide con cui giocavo venivano dalla Germania. Credo di averne conservate ancora alcune in cantina».
Cosa ha significato per lei l’educazione?
«Un terreno di scontro tra resistenza al cambiamento e crescita. Sono stata una bambina che subiva con fastidio l’ostilità dell’adulto. Rifugiarmi nei giochi immaginari non era più sufficiente. Presi atto che la vita è discontinua, fatta di incongruenze non redimibili, di atti senza spiegazione, di disparità e di lotte fra i soggetti. E tutto questo l’ho appreso sulla mia pelle, sul piano dell’educazione scolastica. Intuivo che c’era una regola inflessibile che mi chiedeva di diventare grande a somiglianza degli altri grandi».
Ha provato a resistere a queste forme pedagogiche?
«Ho provato a contrastare le minacce alla fantasia che era stata per me, fin dall’inizio dell’età scolastica, il sentimento implicito e affascinante della mia vita. Ma la scuola era fatta di ore troppo lunghe e noiose, scarsamente rallegrate da giochi. Mi affidavo perciò alla mia giovanile memoria per comprendere che anche l’ovattato mondo degli adulti non era certo il paradiso».
Scoprì l’inferno?
«Casa mia era un’isola felice, di tenera sicurezza, ma pur sempre un’isola piccola circondata da un mare di passioni, nelle quali tutti gli adulti della mia tribù nonno, genitori, zie e zie - erano aggrovigliati in odi, amori, baruffe, vendette, esclusioni. Era un mondo tumultuoso dal quale mi difendevo con la mente e la memoria. L’età dell’innocenza finì con la quinta elementare. I libri e l’osservazione divennero i soli mezzi per affrontare il mio disagio».
Ha contato la figura paterna?
«I rapporti con mio padre furono nulli. Mi ha lasciato fare quello che ho voluto con grande liberalità, mi ha dato i mezzi per poter crescere. Lui, che era un dirigente di banca, ha pagato sempre tutto e nelle mie amicizie non ha mai messo il naso. Ma non mi ha mai concesso una confidenza».
Meglio l’indifferenza o il controllo che un padre di solito esercita?
«Sarebbe preferibile sfuggire a questa alternativa».
Com’era da bambina?
«All’apparenza buona, allegra, compiacente. In seguito, negli anni del liceo, trovai insegnanti liberali e intelligenti. Giunsero le prime amiche del cuore e della mente. Poi l’università con la scelta di Filosofia, alla Statale di Milano, dove ebbi maestri geniali come Cesare Musatti e compagni memorabili da cui apprendere quali Enrica Pischel, Fulvio Papi, Giuseppe Chiarante, Clara Gallini».
Musatti fu il suo punto di riferimento?
«Lui era un continente, io avevo bisogno di una patria.
Era intelligente, spiritoso, pettegolo e ignaro del prossimo. Non mi è mai passato per la testa di fare analisi con lui. E alla fine mi laureai con Antonio Banfi».
Su quale argomento?
«Su Ernst Cassirer. Avevo trovato in biblioteca la sua
Filosofia delle forme simboliche, era ancora il Cassirer warburghiano non quello neokantiano. La sua lingua tedesca era molto bella. Banfi, comunista convinto e amico di Concetto Marchesi, mi chiese: ma perché vuole fare una tesi su un autore liberale? Perché è un pensiero apprezzabile, risposi. Accettò a malincuore. Non seguì il mio lavoro. Feci una tesi in perfetta solitudine. Accolta con giudizi lusinghieri da Remo Cantoni e da Mario Dal Pra che si ricordò di me, quando mi propose di fargli da assistente. Continuai in questo ruolo con Aldo Visalberghi, promettente normalista, laureatosi con Guido Calogero, e poi disperso nelle nebbie del potere.
Visalberghi restò in Statale per sei anni. Infine fui incaricata a Pedagogia».
Che fine avevano fatto i dubbi educativi di lei bambina?
«Continuavano a presentarsi. Mi misi a leggere i testi della disciplina che ero chiamata a insegnare con in più qualche classico da Rousseau a Dewey. Mi stavo rendendo conto che lo scompenso fra chi educa e chi viene educato non perdeva la sua asimmetria. Che si trattava di un gioco di potere. Lo avevo appreso, tra l’altro, frequentando le lezioni di Enzo Paci e alcuni suoi straordinari allievi: Pier Aldo Rovatti, Salvatore Veca, Enrico Filippini. Quest’ultimo aveva fatto una tesi sulla pedagogia libertaria tedesca del primo Novecento.
Riflettere su questi temi diversi mi dava la distanza necessaria dai tormenti di una pedagogia per me sempre poco definita».
Che cosa esattamente la faceva sentire a disagio?
«La pedagogia accademica. Sentivo che occorreva coraggio per sostituirla con altre idee, magari opposte.
Una via di uscita mi venne offerta dall’esperienza del Sessantotto. Mi accorsi che esisteva un largo margine di possibilità, dei contro-modelli da mettere in atto. Mi affascinò la proposta di Ivan Illich di descolarizzare la società, mi interessai alla pedagogia del bambino autistico messa in atto dalla lacaniana Maud Mannoni. Fu in quel periodo che mi trasferii all’università di Ferrara».
Che città trovò?
«Una Ferrara vista dal mondo dei braccianti, dalla gente che votava rosso da generazioni. Una città di una bellezza unica. Quando scendevo dal treno mi sentivo a casa mia. Poi mi trasferii a Pavia, città noiosa e utile, dove ho insegnato dal 1976 al 2005. Ho bei ricordi di Mario Vegetti e Fulvio Papi. Furono anni, soprattutto all’inizio, in cui mi interessai alle ricerche sul campo, fatte in asili nido e scuole dell’infanzia. A quel tempo sembrava prevalere l’impostazione di Jean Piaget. L’insegnamento era di tipo realistico».
Cioè?
«Si pensava che il bambino doveva essere avviato alla conoscenza del mondo, preparando la sua vita psichica per farne un adulto intelligente, con un pensiero sociale e una comprensione non erronea del mondo stesso».
Non ci vedo nulla di sbagliato.
«La verità è che dava luogo a modello pedagogico di tipo intellettualistico, dove atteggiamento progettuale, fantasia, emozioni, desideri e pulsioni erano messi tra parentesi. Lo stesso Piaget, che avevo conosciuto agli inizi degli anni Settanta, non vedeva di buon occhio l’applicazione delle sue teorie. Proprio in quel periodo ricordo la collaborazione con l’architetto Giorgio Riva.
Entrambi immaginammo una scuola che, a cominciare dalla sua architettura, avrebbe dovuto rendere accessibili i suoi spazi».
Un ruolo importante per lei ha rivestito la figura di Anna Freud.
«Apprezzai alcune sue analisi sul modo in cui l’età adulta si confronta con il bambino. In questi ultimi anni l’ho riletta curando e raccogliendo alcuni suoi scritti».
Il libro è "Infanzia e educazione", edito da Morcelliana. Mi ha incuriosito la parte dedicata a un gruppo di bambini sopravvissuti al campo nazista di Terezin.
«È una storia affascinante e drammatica. Anna Freud prese in cura nel 1945, per un anno intero, sei bimbi ebrei fuoriusciti da Theresienstadt. Lì, in quel campo di concentramento dove morirono migliaia di ebrei, non c’erano giocattoli, dovevano arrangiarsi con le mani o usando pietre o altri oggetti. Si erano inventati un idioletto – un misto di tedesco e di yiddish – per comunicare tra loro. Non conoscevano la tenerezza, l’affetto, il calore della famiglia. Furono preda di un destino perverso. È incredibile come alcuni di essi riuscirono a sopravvivere».
La Freud cosa riuscì a realizzare con loro?
«Anna parlò di "un esperimento del destino". Questi bimbi, sei in tutto, furono accolti in una piccola località del Sussex e sostenuti nella loro crescita emotiva e intellettuale. Arrivarono in condizioni estreme: aggressivi e ribelli al richiamo degli adulti. In questa complessa situazione, Anna Freud riuscì a chiarire cosa fosse uno sviluppo in condizioni insolite, su come chi educa deve stare attento a non fare violenza, specie là dove violenza c’è già stata. E mostrò anche come, in assenza completa della madre, la vita in piccolo gruppo costituisse un buon surrogato di oggetto libidico.
Trent’anni dopo Sarah Moskowitz ritornò su quell’esperimento per capire quali effetti si erano prodotti in quel gruppetto di bambini».
Che erano ormai diventati adulti. Cosa si trovò davanti?
«Persone mature, ciascuna con una propria storia. Ma tutti preparati, chi più chi meno, a stare al mondo. il solo aspetto in comune era il rimosso, i ricordi quasi del tutto cancellati di quel periodo e comunque l’assenza di curiosità. Si può azzardare che il terribile danno subito nei primissimi anni di vita fu in larga parte riparato, grazie al lavoro educativo della Freud».
Lei con i suoi libri – tra l’altro una fondamentale storia dell’infanzia – e con il lavoro sul campo si è occupata di bambini. Che effetto le fanno?
«Li ho sempre ammirati».
È un modo strano di riconoscerne l’importanza.
«Li ho ammirati perché fino a due anni non parlano la nostra lingua. Il loro linguaggio è quasi tutto negli occhi.
Sigmund Freud che ebbe sei figli non riuscì a capire questa cosa. Molto meglio Elias Canetti che intitolò parte della sua biografia Il gioco degli occhi,dedicato alla figlia di Anna Malher. Fu un modo per riportare quei suoi ricordi alla seduzione dello sguardo».
Ha avuto figli?
«Non essere mamma mi ha fatto sentire più libera».
In che senso?
«Un figlio ti obbliga a obbligarlo. E io sono incapace di obbligare un altro. E poi non aver fatto figli ha significato che non avrei dovuto redimere i miei bambini. I bambini li ho guardati e, ripeto, ammirati».
Si occupa ancora dell’infanzia?
«Mi occupo della mia vecchiaia che è un po’ come occuparsi dell’infanzia. Mi tengo impegnata con delle ricerche e soprattutto sto portando a termine con Paolo Dionigi, il medico che mi ha operata, un saggio sulla figura del chirurgo tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna».
In senso figurato occorrerebbero buoni chirurghi per il nostro paese?
«Penso di sì, stando attenti che il paziente non muoia sotto i ferri».