Robinson, 20 febbraio 2021
Schinwald prende in giro l’Ottocento
Guardate la tela riprodotta in questa pagina: una bella ragazza dallo sguardo fermo sembra sfidare il futuro. Le spalle alte, esaltate dal bianco vestito, aumentano la sensazione di fiducia in sé stessa che emana. Accenna un lieve sorriso. O forse non è lei a sorridere, forse vi è gentilmente costretta dall’esile protesi che le incornicia il mento e spinge le guance in alto. Quella sottile struttura di metallo dorato è la cifra di Markus Schinwald, ( Salisburgo, 1973), il pittore che corregge. Manomette ritratti ottocenteschi che trova nei mercati, dagli antiquari, ovunque gli capiti. Li restaura e poi aggiunge un particolare incongruo: una benda che copre gli occhi, un vestito che sale fino a coprire il volto, una semisfera che tappa la bocca, attraversandola con lunghe bacchette. E così via. Tutto è dipinto alla perfezione, forse grazie ai consigli, o alla mano, del restauratore che l’assiste: l’oggetto aggiunto sembra essere stato lì da sempre, nato insieme alla figura. Sembra farne parte naturalmente. Perché ne svela un’identità – o un mistero – che altrimenti rimarrebbe celato. Una predisposizione al dolore, uno squilibrio ben temperato, un’inettitudine alla vita: qualsiasi cosa sia, e ogni volta è una cosa diversa, è inquietante. Anzi, per essere più precisi, perturbante. Nel suo celebre saggio del 1919 dedicato a questo tema, Freud cita Schelling; per il quale « Unheimlich (perturbante) è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato».
Non a caso molti degli attrezzi dipinti da Schinwald, siano esse stravaganti gioielli o macchine di lievi torture, assomigliano a dei forcipi in miniatura: portano alla luce il non detto, danno forma all’indicibile. La mostra nel Torrione della Fondazione Coppola, a Vicenza ( fino al 31 marzo, a cura di Davide Ferri), porta il titolo di un famoso film di John Huston con Marilyn Monroe: Misfits.
In Italia divenne Gli spostati, ma la traduzione più precisa è: disadattati, inadatti. E infatti la galleria di quadri che accoglie lo spettatore a Vicenza è un album crudele del disagio di vivere: come in un testo di Strindberg, nella rassicurante cornice dei salotti ottocenteschi, affiorano disturbi dell’anima, zoppìe psichiche, mutilazioni emotive rivelate dalle protesi di Schinwald.
Ma anche la parola Spostati si addice bene all’universo del pittore austriaco. Tutto è lievemente fuori posto nel suo mondo. Nel 2011, grazie a lui, il padiglione austriaco divenne uno più belli della Biennale di Venezia. Nella candida architettura progettata da Joseph Hoffmann, uno dei fondatori della Secessione viennese, Schinwald allestì un bianco labirinto, sospeso in aria a un metro d’altezza: perché tutto doveva essere spiazzante, anche l’esperienza dello spazio. Tra angoli e stretti corridoi sbucavano all’improvviso i suoi quadri, spesso in collocazioni incongrue. Cosi come da angoli improbabili pendevano le sue sculture: gambe di tavoli e sedie Biedermeyer riassemblate in modo da diventare arti umani. «D’altronde – dice l’artista – quei mobili nascevano imitando le gambe femminili. Tanto che l’epoca vittoriana decise di coprirle, perché erano troppo sensuali... Io le ho riportate alla loro origine». A Venezia due video, in mostra anche a Vicenza perché entrati a far parte della collezione Coppola, davano forma e corpo alla poetica dell’inadeguatezza che il nostro artista insegue: uomini con i pantaloni troppo larghi che non riescono a stare su, o con un piede che resta incastrato in un buco malgrado gli acrobatici volteggi per liberarlo.
Le metamorfosi di Schinwald sono meno clamorose di quelle kafkiane, ma ugualmente inquietanti. Nel suo teatro dell’incertezza c’è sempre qualcosa che non è come appare o come dovrebbe essere. Le pareti del Torrione sembrano offrirsi allo sguardo senza intonaco, con i bei mattoni antichi in bella vista: ma se ci si avvicina si scopre che è solo carta da parati, che mima l’aspetto originario dell’edificio. Così le stampe in bianco e nero, che incorniciano piazze e giardini di due secoli fa: ma i piedistalli senza statue lasciano un desolante vuoto, vagamente metafisico. Sì, qui tutto è difforme, sottoposto ad un sottile slittamento di senso che apre le porte su piccoli abissi quotidiani. Come le marionette che accolgono il visitatore all’ingresso e lo salutano all’uscita: dodici bambini di legno, in scala 1 a 1, vestiti di tutto punto, in piedi, mossi da macchine di cui si sente il ferroso ansito. Prigionieri nella loro fissità, possono ripetere solo movimenti minimi: inquietanti perché ci sono sconosciuti e familiari al tempo stesso. Uno specchio deformante che, a volte, dice la verità.