Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 20 Sabato calendario

Wilder sul viale del tramonto

«Billy Wilder ha un talento piccoloborghese!» A sputare la sentenza è Terry, aspirante regista con tutti i vizi dei colleghi barricadieri, convinti che il cinema discenda dall’arte e non dagli spettacoli da baraccone:” venghino, venghino signori…”. Vuole girare un film sulla vita di un uomo, con lo stesso attore che invecchia naturalmente: le riprese dureranno 50 anni (lo ha fatto nel 2014 Richard Linklater in Boyhood, ma era la vita di un ragazzino, bastarono tre giorni di riprese l’anno per un decennio).
Terry sta nel romanzo La casa del sonno, scritto da Jonathan Coe nel 1997 e per metà ambientato nell’Inghilterra di dieci anni prima. Ha tutte le stimmate del cinefilo con la puzza sotto il naso: a Billy Wilder prefesce il neorealista Salvatore Ortese. Costui avrebbe girato – trattasi di ben riuscita e perfida invenzione romanzesca — Il costo della pesca, rivalità tra due misere famiglie di pescatori. Una folgorazione, per Terry, che annota sul quadernino frasi ancora oggi moleste: «il viso come paesaggio», «Il paesaggio come personaggio».
C’era un film in La famiglia Winshaw, che nel 1995 lanciò Jonathan Coe in Italia. Era un romanzo strepitoso e meritava, ma molto aiutò la fascetta che suggeriva un parallelo con l’attualità ( Berlusconi era appena entrato in politica, i Winshaw erano ricchi e potenti). Intitolato – per davvero — Sette allegri cadaveri, turbava i sonni del giovane Michael di anni nove, condotto al cinema dal genitore e trascinato fuori alla prima scena (vagamente) sexy.
Io e Mr Wilder chiude il cerchio. Jonathan Coe costruisce un romanzo attorno al suo regista preferito ( lo ha dichiarato più volte, nelle interviste). Pretesto narrativo: una ragazza greca che per felice coincidenza incontra Billy Wilder sul set di Fedora, suo penultimo film ( aveva passato i 70 anni, lavorava in Europa perché a Hollywood nessuno lo voleva assicurare).
Durante le riprese a Corfù, Calista sarà arruolata come interprete. Fedora è una bellissima star del cinema, ormai invecchiata. Fuggita dagli Stati Uniti si ritira su un’isoletta chiusa agli estranei. Una variazione su Viale del tramonto, diretto da Billy Wilder oltre 20 anni prima: accanto all’attrice Marthe Keller c’era lo stesso attore, William Holden. E si avviava a tramontare la carriera del regista, una decina d’anni soltanto dopo L’appartamento, Uno due tre, Irma la dolce.
A Hollywood trionfava Lo squalo e i “giovani barbuti” – così li chiama I. L. Diamond, fedele sceneggiatore di Billy Wilder per sette film – avevano preso il potere. Si chiamavano Steven Spielberg, Francis Coppola, Martin Scorsese.
Il regista dello Squalo di lì a una ventina d’anni dirigerà Schindler’s List, da un libro che già Billy Wilder aveva pensato di adattare per il cinema. Anche «i giovanotti che non hanno sperimentato la guerra» sanno raccontare l’Olocausto. Intanto la truppe di Fedora si è trasferita a Monaco, sempre con la narratrice Calista al seguito. Billy Wilder inizia a raccontare il suo passato, in risposta a un negazionista convinto – per aver letto un libro, le fake news non hanno bisogno di internet – che “i numeri siano esagerati”.
Il racconto di Billy Wilder è scritto da Jonathan Coe sotto forma di sceneggiatura. Ambientata a Berlino, dove il regista (nato nel 1906 in Galizia) si era trasferito dopo una tappa a Vienna. E dove negli anni venti lavorava come ballerino a tassametro, per le signore senza cavaliere che frequentavano i tè danzanti al Grand Hotel. Siamo nel 1933, al caffè si ritrovano Robert Siodmak, Edgar Ulmer, Fred Zinneman. Tutti fuggiranno a Hollywood, e faranno grande il cinema americano assieme ai produttori venuti dall’Europa. Billy Wilder, che da tempo non ha notizia di sua madre, la cerca nelle riprese fatte dai soldati che liberarono il campo di Auschwitz.
Dramma, sfrenato talento, gusto per la battuta: Billy Wilder non ha bisogno di abbellimenti per diventare un personaggio da romanzo (Jonathan Coe nelle ultime pagine cita tutte le fonti). Meno interessante è la narratrice Calista, ragazza greca con la passione per la musica che dopo l’apprendistato sul set diFedora comporrà colonne sonore. All’inizio del romanzo la vediamo nella classica e un po’ consunta posa «madre con figlie ormai adulte in procinto di lasciare il nido». Stentiamo ad appassionarci, finché non entra in scena Mr Billy Wilder. Una tardiva scampagnata in Francia, mentre si girava Fedora,per una degustazone di formaggio brie, ripropone la retorica – mille volte riscaldata – sui” piccoli piaceri della vita”.
Io e Mr Wilder non ha l’energia dei primi romazi di Jonathan Coe, infuriato perché Margareth Thatcher toglieva il latte ai bambini delle scuole e non cedeva ai minatori in sciopero. Non ha la commozione di La banda dei brocchi, ambientato nei” marroni anni ottanta”, quando nei pub di Birmingham scoppiavano le bombe. Ritrae Billy Wilder nel monento della malinconia, del “sentirsi fuori tempo”. Il romanziere si trova nella stessa situazione: riflessivo sul da farsi, dopo una lunga e strepitosa stagione di successi.