la Repubblica, 20 febbraio 2021
In morte di Vittore Bocchetta
Ha disegnato il lager per il resto della sua vita, i volti incavati alla Munch, le divise zebrate, lo sguardo perso nel vuoto. Però il campo di Flossenbürg non lo sognava mai, né gli stracci né la fame, solo qualche volta nell’incoscienza notturna riaffioravano le torture subite nel carcere fascista degli Scalzi. Diceva Vittore Bocchetta che almeno nel sonno non voleva procurarsi altro dolore, e fino all’ultimo giorno di una vita ultracentenaria ha confinato i suoi fantasmi nell’album da disegno, sconfiggendo la crudeltà passata con una indomabile vitalità proiettata sul futuro. È morto ancora lucido e in fondo sereno, raccontano gli amici che l’hanno accompagnato nella lunga vecchiaia. E ora ne ricordano la frase pronunciata poco prima di superare il secolo: «Devo dichiararlo solennemente: a un certo punto la politica non era questione di partiti, era resistenza antifascista. Resistere significava resistere alla dittatura, alla violenza, alle calunnie. Resistere alla prepotenza. E alla disumanità».
Era un partigiano diverso Vittore Bocchetta, scomparso giovedì sera a Verona a 102 anni. Un hombre vertical scosso da un’intima irrequietezza, passionale e antiretorico fino all’estremo, e forse anche per questo accolto tardivamente nel Pantheon resistenziale. Tornato nel dopoguerra dai campi tedeschi, dove era stato rinchiuso per la sua milizia politica, mal sopportò le “imposture folcloriche” inscenate da chi non aveva fatto la sua stessa scelta coraggiosa ma era pronto a farsi immortalare con il fucile sulla spalla alle feste della Liberazione. «Non sai quante balle hanno raccontato alla fine della guerra», raccontava a chi andava a trovarlo a casa, la postura eretta anche da vegliardo e la parlata schietta. Dai Vittore, non esagerare, cercavano di calmarlo gli amici dell’Istituto storico della Resistenza. Vittore forse esagerava un po’, ma certo lui aveva subito il nerbo di bue che strazia la schiena, all’epoca della Repubblica di Salò. E le torture erano niente rispetto alla prigionia vissuta a Flossenbürg e poi a Hersbruck, un lager a trenta chilometri da Anversa. «Sai qual è differenza?», spiegava calmo. «Le sevizie prima o poi finiscono, mentre il lager non lascia tregua».
Di quella condizione umana «sospesa tra la paura e la speranza di morte» aveva raccontato in un libro bellissimo, Prima e dopo. Quadri 1918-1949,pubblicato da uno stampatore minore e ora recuperato dalla casa editrice Viella che lo farà uscire entro la fine dell’anno. Un’esperienza traumatica che l’avrebbe reso intransigente verso i vuoti di memoria del dopoguerra. L’Italia postbellica che annacquava il passato fascista e le sue responsabilità non era il paese per il quale aveva combattuto. La delusione più grande fu quando gli chiesero di far parte della Commissione per l’epurazione istituita dal Comitato di Liberazione Nazionale. «Dovevamo accertare chi avesse fatto carriera solo per meriti fascisti. Una pagliacciata. Chi aveva i soldi per pagare l’avvocato riusciva a sfangarla, i poveri diavoli perdevano il lavoro». Vittore preferì dimettersi. E dopo un anno la commissione venne chiusa.
Nato a Sassari nell’ultimo anno della Grande Guerra, figlio d’una famiglia della piccola nobiltà cagliaritana, fin da bambino aveva mostrato una natura ribelle, quando usava il suo talento artistico per ritrarre la maestra in pose assai poco convenienti. La carriera militare del padre lo portò adolescente prima a Bologna e poi a Verona, dove si stabilì definitivamente nel 1937, a 19 anni. La sua formazione fu quella di un giovane italiano, costretto a sostenere l’esame di “biologia razzista”. Ma il carattere poco docile lo indusse a sfidare per strada un milite del Battaglione Mussolini, e in quella zuffa non pianificata fu l’inizio del suo antifascismo. Del regime non sopportava la prevaricazione arrogante, il sistema delatorio, il controllo totalitario sulle idee. Cominciò la sua vita di dissidente clandestino, capace di azioni coraggiose e per questo rinchiuso nel carcere di Verona. Più tardi il passaggio al partigianato, punito con la prigionia nei lager tedeschi.
È morto e rinato tante volte, Vittore Bocchetta. Nell’Argentina di Evita Perón arrivò nel 1949 come un ragazzo disarmato, ma avrebbe fatto fortuna con i suoi disegni a matita, i collages e le opere in bronzo, esposti nei musei dell’America Latina e degli Stati Uniti. La sua scultura più celebre è Ohne Namen,Senza nome, una creatura inerte con il capo poggiato sul grembo che è stata sistemata davanti al campo di Hersbruck. Quando un gruppo di neonazisti la imbrattò di vernice rossa, reagì alla sua maniera. «Vuol dire che sono stati offesi dalla verità. Avrei preferito che rimanesse sporca di rosso, simbolo del sangue versato». Diceva che non voleva riconoscimenti, ma quando pochi anni fa arrivò quello di “Grande Ufficiale” del presidente Mattarella lo incorniciò felice. A labari e discorsi sfuggirà la cerimonia del seppellimento. Nessun funerale, niente cremazione, ha lasciato detto. Anche da morto voleva tenere lontano il ricordo dei forni.