la Repubblica, 20 febbraio 2021
135QQAFM10 Intervista allo scrittore Toshikazu Kawaguchi
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«Volevo diventare fumettista, ma il sogno non ha funzionato. Così ho iniziato a scrivere sceneggiature e mi sono occupato di teatro per un ventennio, facendo lavoretti per guadagnarmi da vivere ». Così il giapponese Toshikazu Kawaguchi, cinquant’anni, sintetizza la sua esistenza prima della fortuna del suo Finché il caffè è caldo .
Di lavoretti per sbarcare il lunario non avrà più bisogno, perché ora è uno scrittore di successo: in Giappone, dove è stato pubblicato nel 2017, il romanzo ha venduto un milione di copie ed è diventato un film; tradotto in 32 paesi, in Italia si è trasformato in un caso editoriale. Uscito per Garzanti nel marzo scorso ha già capitalizzato 21 edizioni e 150mila copie vendute. Il sequel Basta un caffè per essere felici , uscito da poco, ha avuto tre edizioni nei primi sette giorni: nelle classifiche che trovate oggi su Robinson ci sono entrambi.
La trama è semplice e tuttavia piuttosto curiosa: a Tokio esiste una vecchia caffetteria. A un tavolo siede sempre una signora vestita di bianco che legge un libro in silenzio; i piatti sono semplici ma buoni. La specialità però non è il menù, ma il fatto che chi riesce a sedersi al posto della dama silenziosa e beve un caffè caldo può viaggiare nel passato o nel futuro. Può farlo una sola volta e soprattutto non può cambiare il corso degli eventi. Perché dunque i personaggi di Kawaguchi — tra i quali una manager mollata dal fidanzato, un’infermiera col marito malato di Alzheimer, una donna incinta che sa che morirà facendo nascere il suo bambino — scelgono di intraprendere il viaggio? Come spiega l’autore, lo scopo non è cambiare ciò che è accaduto ma accettarlo, imparando a vivere il presente. Una lezione perfetta per tempi incerti, che lui stesso ha appreso, con la sua dose di dolore, da bambino. E che lo avvicina forse, più che agli scrittori nipponici che amiamo come Haruki Murakami o Banana Yoshimoto, alla filosofia delle piccole cose che dal Giappone ha conquistato il mondo. Insomma, un metodo Marie Kondo per i cassetti dell’anima.
Può raccontarci come è nata l’idea di "Finché il caffè è caldo"?
«È nato come una pièce, per coinvolgere i miei studenti di recitazione. Prima ho immaginato il titolo, poi la possibilità di viaggiare nel tempo solo per un breve periodo, appunto "finché il caffè è caldo": man mano che scrivevo il copione, inventavo altre regole per il viaggio. A teatro mi siedo nell’ultima fila e sono felice se sento gli spettatori "tirar su con il naso": è il momento in cui capisco se la mia storia è arrivata al cuore oppure no. In questo caso, a suggerirmi l’idea di un romanzo è stata la mia attuale editrice, che assisteva allo spettacolo: devo il libro alla sua sensibilità».
Perché il viaggio nel tempo non permette di cambiare il passato?
«Non lo so bene neanche io, però penso che sia questa impossibilità a suscitare empatia, e a riportare nella vicenda — che è surreale — un dato di realtà. Probabilmente molti di noi desiderano tornare indietro nel tempo, ma la realtà non può mutare. Per accettarla serve una direzione da seguire, un pensiero, una soluzione».
Accettare la realtà è la chiave?
«Il mio motivo dominante è sempre la forza di vivere. È l’insegnamento ricevuto da mia madre. Mio padre morì quando ero in terza elementare; la notte del funerale lei mi preparò sorridendo una spremuta. La realtà, per quanto dura, cambia a seconda di come la si affronta. Mia madre mi ha insegnato a guardare avanti in qualsiasi situazione».
Facciamo un gioco: se potesse tornare nel passato, che istante sceglierebbe?
«Il periodo precedente la morte di papà. Per dirgli che nonostante le avversità, avremmo continuato a vivere, grazie alla mamma, felici e col sorriso. Posso solo immaginare quanto fosse grande il rammarico per dover abbandonare la sua adorata famiglia. E vorrei sapesse che ora tante persone in tutto il mondo leggono quello che scrivo».
Ambienta i suoi romanzi in una piccola caffetteria di Tokyo: nulla di più lontano dall’immagine frenetica che se ne ha in Occidente.
«Scelgo spesso le caffetterie per scrivere e amo i posti come il Cafè Funiculì Funiculà, che è il nome del locale nella versione originale: un luogo dove si ha l’impressione di essere in un rifugio silenzioso, illuminato da una luce soffusa, dove trascorrere del tempo con sé stessi».
Un bell’omaggio all’Italia.
«Il nome Funiculì Funiculà ovviamente deriva dalla celebre canzone napoletana, che in Giappone è cantata alle elementari. Quando ho scelto il nome volevo evocasse ricordi infantili: mi sento di rivelarvi però che noi siamo abituati ad ascoltarla come una parodia intitolata "Le mutande dell’orco"».
È stupito del successo tra i lettori del nostro paese?
«Sono felice, e non riesco ad immaginare cosa li catturi. Quando scrivo tengo a mente una cosa: fare in modo che un romanzo sia adatto a tutti e trasversale alle generazioni. Il successo in Italia conferma che la mia storia supera i confini».
Crede che la pandemia abbia aiutato le vendite dei suoi libri, visto il bisogno di connessione e fiducia che ha fatto nascere?
«Quante persone, in qualsiasi epoca, vorrebbero ricostruire loro biografia o ritornare a una data del loro passato? Penso che la pandemia abbia aumentato il numero di coloro che si interrogano su come vivere il futuro. Se il romanzo arrivasse nelle mani di uno di loro e infondesse salvezza o coraggio, ne sarei grato, mi sentirei appagato».
Molti la associano al filone della "up-lit", fatto da quei libri capaci di farci sentire meglio. Come un altro bestseller, "Eleanor Oliphant sta benissimo". Lo conosce?
«Sì, l’ho letto: i motivi del libro di Gail Honeyman sono anche i miei. Ma se devo dire la verità, per ciò che riguarda la letteratura straniera mi sono concentrato su un altro tipo di narrativa: i libri di Harry Potter. Ero curioso di conoscere i segreti, lo stile, la struttura di una serie letta ovunque. Mi sono così divertito che l’analisi è finita in secondo piano».
Sta pensando di proseguire la "serie del caffè" con un terzo libro?
«Sì, mi sto dedicando ad uno spin-off del primo romanzo; non perdetelo».
(Traduzione dal giapponese di Motoko Tanaka)