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 2021  febbraio 20 Sabato calendario

Il populismo da Di Pietro a Di Pietro

Se il Movimento 5 Stelle fosse un panorama urbano, con tutte le sue costruzioni recenti, il Bosco verticale di Di Maio, i condomìni dei peones, le favelas di Di Battista e i formicai disabitati dei meet up, e se Beppe Grillo potesse affacciarsi dall’alto sulla scena, accompagnato da uno dei suoi fedeli, il commento dell’Elevato potrebbe anche essere: «Qui, una volta, era tutto Di Pietro».
La città del populismo, quando era ancora solo campagna interrotta da due strade, un municipio e una chiesa, come i nuovi borghi del Duce, l’ha fondata lui: Tonino Di Pietro da Montenero di Bisaccia, Molise. L’ex poliziotto, l’ex pm di Mani pulite ed ex eroe degli italiani onesti quando non erano ancora un coro (onestà-onestà), la toga capace di realizzare il sogno inconfessato dell’Italia di Giannini e Pingitore, mettere alla sbarra i politici e provocarne i sudori freddi e la condensa di saliva a favore di telecamera, Di Pietro il politico dell’antipolitica e dell’anti casta quando la casta non sapeva nemmeno di esserlo, dapprima madonna pellegrina presa in leasing dalla sinistra dalemiana nel collegio del Mugello, quindi fondatore in proprio e padrone di un partito, l’Italia dei valori, che per due lustri ha fatto la sua parte prima di finire tritato dal M5S nella spietata selezione della specie. Ma solo dopo aver regalato al bestiario parlamentare le nuove formidabili maschere del teatrino: i Domenico Scilipoti, gli Antonio Razzi, gli Elio Lannutti.
La parabola del populismo italico contemporaneo: da Di Pietro è partita e a Di Pietro finisce. È il simbolo in naftalina dell’Italia dei valori, il Gabbiano, animale noto nella Capitale per la sua bocca buona, che potrebbe permettere di fare gruppo autonomo in Parlamento ai dissidenti grillini che non vogliono morire draghiani, loro che Draghi e il Bilderberg e Soros e la Spectre li hanno combattuti come i tupamaros la Trilateral e Sibilia le scie chimiche. Sarebbe quasi la rivincita del puro epurato dai più puri, non fosse che ormai è difficile distinguere tra vincitori e vinti. I portavoce di Beppe che hanno portato l’anti- politica dall’8 per cento del “che c’azzecca?” al 33 per cento del “vaffa” oggi valgono secondo i sondaggi non molto più di quanto valeva l’Idv all’apogeo del suo splendore, quando Di Pietro era l’alleato unico del Pd di Walter Veltroni alle Politiche del 2008 ma, incredibilmente, la cosa non pareva sconveniente ai riformisti come quando si trattò di allearsi con Conte e Casalino.
Di Pietro e Beppe Grillo, del resto, hanno avuto a lungo in comune l’architetto: Gian Roberto Casaleggio, che nel primo decennio del secolo lavorava per l’uno e per l’altro, in senso letterale. Curava il blog di Beppe e il sito di Tonino, che aveva fiutato l’aria della politica via web e Casaleggio lo assunse anche come consulente al ministero delle Infrastrutture. Ma Di Pietro era la bad company e Grillo la newco del futuro, e quando nel 2009 il buon Tonino ruppe con Casaleggio senior, avendo capito di essere il pollo al tavolo del poker, si trovò presto solo con il suo avatar in Second Life sull’isola di Neverland (c’era, c’era davvero) mentre nelle piazze del Paese rimbombava il turpiloquio di Grillo, al cui confronto le sfuriate dipietriste contro i politici sembravano buffetti.
«Ha le stesse nostre idee», diceva Tonino di Grillo. L’altro ricambiò perfidamente i complimenti raccontando in una intervista fiume al Fatto quotidiano di quando l’ex pm era andato a trovarlo a casa: «Gli ho fatto vedere un dvd, che avevo solo io, di una sua lezione di Procedura penale al Cepu. Se l’è messo in tasca e se l’è portato via». Di Pietro incassò: «Embé? Lo sanno tutti che con l’italiano ho un rapporto difficile. Rivedere la lezione mi serviva a capire dove sbaglio». Il cambio della guardia simbolico fu una sera del 2012 che i due si incrociarono in uno di quei talk tv dove il grillismo era spacciato per la sinistra che avanza, e quanti c’hanno creduto, e quanti ci credono tuttora. L’ex pm tuonò tutto il tempo contro i finanziamenti pubblici ai partiti. Poi partì un filmato con un’intervista a Grillo: «Caro Tonino, non serve una legge per non prendere i rimborsi, firma un assegno e restituisci tutto». Se su Di Pietro si fosse abbatutto un meteorite avrebbe fatto meno danni. Addio Tonino. Aveva fatto tutto come il Movimento, prima del Movimento: Casaleggio guru, il partito in mano a un’associazione privata, le campagne sul magna magna, le sgrammaticature, coincideva tutto, solo che la festa ormai era in casa di Grillo.
Dall’Idv se ne era andata pure Franca Rame mentre il marito premio Nobel Dario Fo era già testimonial del M5S. A Di Pietro rimase solo Pancho Pardi, il prof girotondino ex Potere operaio al quale va il merito storico di aver inventato il ruolo di Fico nell’album di famiglia del populismo: lo specchietto di sinistra mentre le allodole volano a destra. Di Pietro ci provò pure a sopravvivere con Ingroia candidato premier, uno che stava nel Pantheon anche dei grillini, i quali però dopo anni di semina anti-sistema non avevano più bisogno né di prestanome in toga né del trattore di Tonino per raccogliere i frutti: bastavano Vito Crimi e Danilo Toninelli a sbancare le urne. In compenso, sotto le nuove insegne era tornato in Parlamento Lannutti: «Di Pietro ha fatto tanti errori, ma anche Grillo. Una volta venne in commissione a dire che le donne sono tutte puttane e i politici papponi. In seguito precisò che ci sono delle eccezioni». È importante precisare. Ora Lannutti lascia Grillo per tornare tra le braccia del primo padre: Tonì, ci riprendiamo tutto quello che è nostro.