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 2021  febbraio 20 Sabato calendario

Orsi & tori

Da cosa nasce il feeling fra due persone per certi versi opposte come Matteo Renzi e Mario Draghi? Era il gennaio del 2015 e per la seconda volta la cancelliera Angela Merkel chiese al presidente del Consiglio Renzi di candidare Draghi alla presidenza della Repubblica. Per la seconda volta Renzi tenne il punto e, pur avendo buoni rapporti con la Cancelliera, fece semplicemente sapere a Draghi che cosa gli aveva chiesto la donna più potente d’Europa, confermando al presidente della Bce che il governo italiano avrebbe sempre protetto la sua azione di italiano più professionale e più potente nel mondo bancario europeo e non solo. Così, per scelta di Renzi, nacque la candidatura di Sergio Mattarella e la conseguente rottura con Silvio Berlusconi anche sul patto del Nazareno, che forse poteva migliorare l’Italia. Berlusconi, infatti, voleva che salisse al Quirinale Giuliano Amato, Renzi gli preferì un uomo con le sue stesse radici nel mondo cattolico progressista. Ma questa è storia nota quasi a tutti. Meno nota quella pressione di Merkel, che pure stimava molto Draghi, come ha confermato anche dopo. Il fatto era che nel luglio del 2012 Draghi aveva messo in minoranza nel consiglio Bce il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, esponente importante del partito della Merkel (in Germania possono diventare banchieri centrali anche i politici), e la Cancelliera doveva mostrare ai suoi che si muoveva per limitare quell’italiano bravissimo ma di cultura troppo americana.
Grazie a una fonte certa e a una verifica fatta con una persona vicina a Draghi, iniziai «Orsi & Tori» del 9 maggio 2015 raccontando queste mosse della Merkel verso Renzi. Sapevo e scrissi che tutti avrebbero smentito la notizia, sia in Germania che da parte dello stesso Draghi, proprio come avveniva in quel periodo a proposito della trattativa fra Stato e mafia. Infatti, alle 8 di quel sabato fu direttamente Draghi a chiamarmi. Non è vero che la signora Merkel vorrebbe spingermi fuori dalla Bce con la logica di promoveatur ut amoveatur.
Abbiamo un rapporto ottimo, esordì. È vero, Professore, gli risposi, ma lei sa meglio di tutti come ha messo nell’angolo Weidmann, che, come sa bene, è uno degli uomini più potenti del partito dell’Unione cristiana democratica.
Parlammo per una mezzoretta e il Professore mi rivelò come la scelta di rendere autonoma dalla struttura centrale Bce la Vigilanza bancaria europea, presieduta dalla francese Danièle Nouy d’accordo con i tedeschi, fosse un serio problema. «Se il Consiglio della Bce non è d’accordo sulle scelte della Vigilanza, deve promuovere un’azione davanti al Parlamento europeo. Figuriamoci cosa succederebbe se ponessimo il problema Mps coram populo». In ogni caso, era una forte rottura con le regole delle banche centrali, dove il vero capo della Vigilanza è sempre stato il governatore.
Negli anni successivi con la sua fermezza, il suo coraggio e la sua competenza, Draghi ha sbaragliato il campo. E il rapporto con Renzi è rimasto.
Il suo discorso al Senato e poi alla Camera è stato encomiabile, per lucidità e semplicità. Ed è stato talmente e ampiamente commentato e vivisezionato da sinistra, da destra e dal centro, che a mio avviso è sufficiente ripetere solo la sua chiusura: «Oggi l’unità non è un’opzione è un dovere per amore dell’Italia».
E altro punto chiave lo ha categoricamente chiarito al momento giusto nel suo discorso: l’euro è irreversibile. Ha ragione, oggi è irreversibile, ma il Presidente del Consiglio sa bene la storia dell’euro e come la scelta che fu fatta dal Presidente Romano Prodi e dal ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi abbia avuto un ruolo pesante nell’accentuare la difficoltà di crescita dell’economia italiana a causa del rapporto di cambio che fu accettato. Il Paese fu salvato dal default proprio perché terza componente del sistema con Germania e Francia. Ma un cambio meno penalizzante avrebbe ridotto meno la ricchezza del Paese. Draghi conosce bene l’antefatto, cioè il Trattato di Maastricht. Nel firmarlo, a Guido Carli, ministro del Tesoro, gli tremò la mano e per questo aveva fatto inserire l’opzione che al momento della costituzione dell’euro l’Italia avrebbe potuto chiedere di rimanere fuori per un po’ di tempo, come in effetti fece per sempre la Gran Bretagna. Poter fare per l’Italia svalutazioni competitive avrebbe fatto conquistare ai prodotti italiani quote di mercato più ampie. Su tutto prevalse il comprensibile afflato europeo di Ciampi e Prodi e fu anche imposta, per ottenere l’ingresso nell’euro, una tassa temporanea sui redditi degli italiani.
Non sarebbe giusto considerare quella scelta di Prodi e Ciampi un errore, perché appunto muoveva dall’ideale europeo che anche Carli aveva, ma conoscendo le condizioni del Paese il ministro aveva richiesto una clausola di salvaguardia. Quelle scelte e cosa ne è conseguito vanno considerate un’esperienza da tenere ben presente per altre scelte europeiste. E ce n’è una prossima, anche se non coinvolge tutta l’Europa, ma soprattutto l’asse, questa volta, franco-olandese. Si tratta dell’aggregazione della Borsa italiana in Euronext, il cui atto formale si compirà il 15 di marzo, quindi a brevissimo.
La necessità che Borsa italiana uscisse dal controllo del London stock exchange e ritornasse sotto l’influenza diretta è una tesi che questo giornale assieme agli altri media di Class editori ha sostenuto da anni in solitario. Quindi, l’operazione di riacquisto di Piazza Affari, sia pure in maniera indiretta attraverso l’ingresso di Cdp e Intesa Sanpaolo in Euronext che comprerà Borsa italiana, è stata più che sostenuta da ItaliaOggi. Ma nell’esecuzione e nell’organizzazione che ne seguono occorre che il governo Draghi per gli effetti generali sul Paese, e gli azionisti italiani di Euronext siano molto accorti su clausole e poteri. E anche la Consob, che conosce gli accordi ma non gli effetti pratici, dovrà dare il suo assenso.
C’è un punto fondamentale da tenere presente e attiene a un dato inequivocabile. L’Italia è il Paese europeo con il maggior risparmio. Gli italiani sono risparmiatori quasi quanto i giapponesi, che hanno il record mondiale. Senza considerare il risparmio aggiuntivo accumulato durante il Covid per paura del futuro e quindi la fortissima crescita dei depositi bancari, arrivati a 1.700 miliardi, il risparmio degli italiani da anni va per il 75% in investimenti fuori dall’Italia: fondi, gestioni o iniziative dirette ignorano la borsa italiana, che in effetti ha solo 300 aziende quotate ed è storicamente un catino.
Anche uno studente del primo anno della Bocconi sa che la benzina della crescita sono gli investimenti e gli investimenti sono possibili se ci sono i capitali per farli. L’Italia abbonda di capitali, ma appunto vanno a fare da benzina agli investimenti esteri. L’Italia è insomma donatore di sangue al resto dell’Europa e del mondo, visto appunto che ben il 75%del risparmio italiano viene investito all’estero.
Ciò avviene perché gestori, fondi e individui odiano l’Italia? Assolutamente no. Le cause sono ormai arcinote ma vale la pena di ripeterle: 1) la struttura produttiva italiana, fatta di piccole e medie aziende, in genere ancora in mano a chi le ha fondate oppure dove il cambio generazionale è avvenuto ma non bene; 2) la mancanza fino a poco tempo fa di un vero mercato dove le pmi si possano quotare raccogliendo capitale per lo sviluppo. È vero, c’è l’Aim, ma le società che si sono quotate sono troppo poche e soprattutto scarsamente attrattive per gli investitori perché il mercato è sostanzialmente illiquido. Sono anni che viene sottolineata la necessità che siano fatte modifiche al regolamento e che il cosiddetto specialist, in realtà sia un market maker, che garantisca liquidità e quindi scambio dei titoli. Perfino al vecchio Mercatino di decine di anni fa ogni società listata aveva un agente di cambio o una commissionaria che faceva mercato. Sì, sono stati fatti i Pir e gli Eltif, ma non basta: ci vogliono uno o più fondi, magari di Cdp, che aiutino lo sviluppo: chi investe deve avere la possibilità di disinvestire perché i volumi lo consentono. E naturalmente per chi si quota e per chi investe devono essere previsti incentivi significativi, che in ogni caso non alterano il gettito fiscale, perché se le pmi italiane si sviluppano generano reddito per le finanze pubbliche non fosse altro che per l’Iva; 3) ma una situazione grave esiste anche per il mercato principale, essendo ben poche le società quotate. E che il mercato non funzioni bene lo si capisce, una per tutte, dalla decisione di Leonardo Del Vecchio, quando ha fuso Luxottica con la società francese produttrice di lenti Essilor, che ha deciso o accettato di quotare la nuova società a Parigi. Anche per chi quota alla Borsa italiana società medio-grandi devono essere previsti incentivi, pena l’impossibilità per gestori e fondi di avere aziende italiane in numero e varietà sufficiente per tenere il carburante costituito dal risparmio italiano in una percentuale superiore a quella ridicola di oggi, cioè il 25% appena.
Ma anche la Consob si deve muovere, recuperando appieno il concetto della piena trasparenza delle società, che oggi c’è, ma in maniera non facilmente accessibile a tutti, avendo l’Europa deciso che ogni informazione sia sufficiente se pubblicata sul sito della società o sugli aggregatori digitali. Soprattutto, devono essere decisi strumenti che consentano la comparazione, da diffondere in ogni forma possibile di comunicazione.
In un contesto come questo, si comprende bene che l’attuazione pratica dell’operazione Euronext debba essere meditata molto bene e in senso difensivo per Borsa italiana, che deve crescere e deve raccogliere larga parte del risparmio italiano. Nessuno può negare, se non sovranisti e populisti, che il futuro dei Paesi europei è quello di essere il più possibile un’unica entità. Ma l’esperienza dell’euro deve essere di ammonimento e guida in senso inverso.
Personalmente prescindo dagli avvisi ai naviganti cresciuti negli ultimi mesi, sui disegni franco-olandesi di monopolizzare i mercati dei Paesi meno forti dell’Europa. A me non piace che il ceo di Euronext, Stephane Boujnah, nella recente intervista al Corriere della Sera abbia sostenuto una tesi che ha permesso questo titolo: «Euronext, per le imprese italiane si aprirà la nostra rete europea». Le aziende italiane hanno bisogno di quotarsi in primo luogo nella Borsa italiana, dove peraltro entro 18 mesi saranno presenti anche tutte le altre società dell’Euronext. Non sarà comunque un mercato veramente europeo perché la Germania, nessuna novità, è rimasta per conto suo.
L’operazione Euronext deve essere un raddrizzamento di Piazza Affari e di Milano Capitali, non una accentuazione del collocamento del risparmio italiano in società estere. Questo il presidente Draghi lo sa benissimo e pertanto ItaliaOggi auspica che fra i tanti dossier che ha aperti, includa anche quello della Borsa italiana, di come far affluire il risparmio italiano in primo luogo in società italiane, di come creare un vero mercato finanziario italiano a Milano, come c’è a Francoforte, a Parigi e ad Amsterdam Con un corollario che riguarda non solo la piazza finanziaria ma tutto il sistema fiscale europeo. Le aziende si quotano ad Amsterdam, che ha superato per capitalizzazione Londra, per quale motivo? Per tutte le agevolazioni fiscali che quel Paese offre alle società, in sostanziale dumping verso il resto d’Europa.
Fare in modo che anche l’Italia abbia un forte mercato dei capitali non vuol dire essere antieuropei, un sentimento e un’azione che non appartengono a questo giornale. Vuol dire cercare avere pari diritti degli altri Paesi. Perfino il Presidente Romano Prodi, che come capo della Commissione Ue fece in modo che l’Europa unita si allargasse a molti altri Paesi del continente, nel suo intervento a Piazza pulita di giovedì 18, ha messo in guarda su processi che destrutturano l’Italia, citando il caso della fusione Fca-Peugeot-Citroën in Stellantis. Ha detto Prodi: Torino e l’Italia contano sempre meno perché con la partecipazione dello Stato francese, la maggioranza nel patto è della Francia, il consiglio d’amministrazione è in maggioranza francese, il ceo non è francese, essendo portoghese, ma da anni è a capo del gruppo automobilistico francese. Se ci fosse stato Draghi presidente ai tempi della conclusione dell’affare, ritengo che non sarebbe finita così, nonostante il suo schietto europeismo e il concetto di meno Stato nell’economia: per esempio Cdp avrebbe potuto eguagliare la quota dello Stato francese nel capitale. Perché, si sa, le maggioranze contano, anche sull’allocazione delle produzioni, mentre Draghi teme che gli stabilimenti italiani siano in secondo piano, mentre l’Italia offrirebbe (ha aggiunto Prodi, purtroppo) salari più bassi di quelli francesi e quindi maggiore competitività del prezzo delle auto.
Ma non è soltanto la piazza finanziaria, non è soltanto il prevalere dello Stato francese nella più grande operazione industriale della storia: il Presidente Draghi avrà sicuramente consapevolezza di che cosa scrivono, non a torto ma con scarso spirito europeista, i giornali tedeschi, per esempio il Frankfurter Allgemeine Zeitung, per la penna di un amante dell’Italia come il bravissimo collega Tobias Piller. «Riuscirà Draghi adesso in Italia a fare quello che non sono riusciti a fare dal 1994 i 17 governi della cosiddetta Seconda Repubblica?».
E la descrizione dell’Italia nell’articolo è impietosa: «Il piano di Draghi di portare il suo Paese su un percorso di crescita con la decisione di tante riforme, è un’impresa più che audace. Perché per troppi anni la politica economica italiana è stata caratterizzata da retorica vuota, appaiata con un sostanziale blocco dell’azione».
Presidente Draghi, facciamo in modo che gli amici giornalisti tedeschi non possano più in futuro descrivere correttamente con queste parole la realtà italiana. Abbiamo come italiani l’intelligenza e la capacità per primeggiare in Europa. E Lei lo sa bene, perché altrimenti non avrebbe preso sulle sue spalle l’intero Paese. Ma non dimentichiamoci che il risparmio italiano deve determinare in primo luogo lo sviluppo dell’Italia.