la Repubblica, 19 febbraio 2021
QQAN20 8QQAN40 La verità, vi prego, su Hölderlin
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«Sì, le poesie sono autentiche» – disse il poeta a Christoph Schwab, che all’inizio del 1843 gli portava una copia dell’edizione in miniatura delle sue poesie, pubblicate a cura d’altri, come se fosse già defunto – «sono mie, ma il nome è stato falsificato; non mi sono mai chiamato in vita mia Hölderlin, ma Scardanelli o Scaliger Rosa o altro». È solo una delle sconcertanti affermazioni annotate dai devoti pellegrini che alla casa con la torre sul Neckar, a Tubinga, dove Hölderlin abitava dal 1807, si recavano come a un santuario greco, per interrogare l’oracolo, e confermarsi nella loro idea di pazzia.
Tutt’altro fa Giorgio Agamben, che nel suo La follia di Hölderlin – Cronaca di una vita abitante 1806-1843, sovverte la tradizionale lettura dell’“ottenebramento” dell’immenso poeta tedesco, che ha generato narrazione e letteratura fin da quando Hölderlin era ancora vivo. Il libro – denso, impervio, e però commovente e coinvolgente, perché esperienza intellettuale totale – si compone di quattro parti: Soglia, Prologo, Cronaca ed Epilogo. La parte centrale – e più corposa – è dedicata ai 36 anni trascorsi da Hölderlin nella casa del falegname Ernst Zimmer (e poi dei suoi familiari). Agamben motiva la scelta della forma della cronaca poiché, a differenza dello storico, tenuto a interpretare gli eventi di cui si occupa, il cronista può limitarsi a presentarli così come si manifestano. E dal momento in cui – esattamente a metà della sua vita – Hölderlin si separò dal mondo e da sé, si sottrasse a ogni indagine storica, biografica, psicologica. E infatti la cronologia esterna (gli eventi della politica e della guerra, vittorie e sconfitte di Napoleone, occupazioni di Goethe) scorre nelle pagine pari in parallelo a quella nelle dispari del poeta, che cade nelle mani dei dottori e delle loro atroci cure a basedi belladonna, oppio, cantaride – finché la prima scompare, e resta unicamente la cronaca quotidiana di giorni comuni e insignificanti, nei quali non gli “succede nulla”, scanditi dal ritmo delle stagioni, dal ripetersi di passeggiate, smanie, sonate al pianoforte, silenzi. I nudi documenti – la fattura per il pagamento delle scarpe e delle pantofole, per la cucitrice che gli rammenda le calze e il sarto che gli ripara i pantaloni – si alternano ai racconti dei testimoni, alle perfide lettere alla madre, alle poesie. Li riceveva con esagerata cortesia e li frastornava con rimuginamenti “sconnessi”. Di lui li colpivano gli occhi. Grigi, di uno splendore opaco, sorridenti, confusi, selvaggi, spenti, malinconici, instabili. E lo “sfacelo” della sua mente. In realtà, li terrorizzava.
Agamben non si lascia tenere a distanza dalla cerimoniosa recita del personaggio del folle, e anzi si avvicina a lui più di quanto abbiano fatto i suoi amici, ammiratori ed esegeti. Sprofonda letteralmente (nel Prologo e nell’Epilogo) negli scritti più complessi di Hölderlin (sulla tragedia e il sentimento del tragico, sulla forma artistica nazionale, e le traduzioni di Sofocle), di solito considerati confuso delirio di una mente deteriorata, e nelle sue poesie più indecifrabili (quelle in rima, terse e cristalline, fatte di versi paratattici apparentemente slegati, firmate con nomi altri e datate in anni mai vissuti), e li restituisce in pagine di analoga profondità (ma anche di analoga qualità letteraria). Il ragionamento del filosofo accompagna e doppia quello del poeta, talvolta mimandone il periodare labirintico, talvolta lampeggiando per apoftegmi. A mo’ di esempio mi limito al termine “abitante” che, tratto dal versoQuanto lontano va la vita abitante degli uomini?, figura nel titolo del libro e ne offre la chiave. «Al limite estremo della passività» – aveva affermato Hölderlin nella Nota all’Edipo – «non sussiste infatti più nulla, se non le condizioni del tempo e dello spazio». Una vita abitante (o abitiva) vive secondo abiti e abitudini, è «una affettibilità che resta tale anche quando riceve delle affezioni, che non trasforma in percezioni coscienti, ma lascia trascorrere in una superiore coerenza, senza imputarle a un soggetto identificabile». In questa condizione l’Io «non può avere la forma di un soggetto assoluto (…), ma quella – più labile e inappropriabile – di un abito o di un’abitudine». E appunto un abito o un’abitudine era la vita impersonale che Hölderlin si era assegnato. Onorando la diagnosi di malattia mentale, emessa dalla madre e dai dottori sbrigativamente (e forse strumentalmente, per evitargli l’arresto nel disordine napoleonico), annientandosi (fino a ripudiare il suo nome e diventare un generico “uomo”), trasforma ciò che è più comune e insignificante in una “verità di natura” – quella stessa delle stelle e degli alberi che abitano i suoi estremi e insuperabili versi.