Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2021
I conti della moda
Il Covid chiude la gente in casa e la moda soffre. L’Area studi di Mediobanca, che ha passato al setaccio i dati di bilancio di 80 multinazionali del settore, ha evidenziato che nei primi nove mesi del 2020, investiti in pieno dall’esplosione pandemica, il prosciugamento del giro d’affari è stato cinque volte maggiore di quello sperimentato dalla grande industria. Più penalizzato il mercato europeo che, complice il blocco dei flussi turistici, ha visto sfumare quasi un quarto delle vendite (-23,7%), mentre l’Asia, con l’eccezione del Giappone, se l’è cavata con un -10%.
Come altri settori merceologici, la moda ha assistito a un boom delle vendite online: mediamente, nelle diverse aree geografiche, l’incremento è stato dell’ordine del 60%. La crisi è stata più pesante per le case europee che per quelle Usa: le prime hanno diminuito le vendite del 22,9% e il margine Ebit di 10,9 punti, le seconde hanno visto scendere i ricavi del 19,7% e il margine reddituale di 7,3 punti.
L’ultimo trimestre dello scorso anno, però, ha dato segnali di vitalità: il fatturato a livello aggregato, secondo i primi dati processati, è rimbalzato del 17%. Non abbastanza per rimarginare le ferite, ma è già qualcosa. Il 2020 non riporterà comunque il settore ai livelli dell’anno prima, quando i big della moda (presi in considerazione gli 80 gruppi con almeno 1 miliardo di ricavi) hanno registrato un giro d’affari complessivo di 471 miliardi (il 26,5% in più rispetto al 2015 e il 4,9% in più rispetto al 2018), per il 56% generato dai gruppi europei e per il 34% dai nordamericani.
Le case di moda italiane sono le più rappresentate nel campione: 10 su 80, ma – come già evidenziato in altre edizioni dello studio – sono i gruppi francesi, di maggiori dimensioni, che fanno la parte del leone aggiudicandosi il 36% del fatturato totale. Il numero uno mondiale è infatti il gruppo francese Lvmh che, da solo, vanta 53,7 miliardi di ricavi, distanziando di molto Nike (33,3 miliardi), Inditex-Zara (28,3 miliardi), Adidas (23,6 miliardi), H&M (22,3 miliardi) e Fast Retailing-Uniqlo (18,8 miliardi). A seguire Essilor-Luxottica, con 17,4 miliardi, che pur avendo la sede a Parigi fa capo a Leonardo Del Vecchio, mentre il primo gruppo “tutto italiano” per dimensioni è Prada, al 34esimo posto con 3,2 miliardi.
L’Area studi Mediobanca ha analizzato anche i dati dei principali player della moda italiani, con un fatturato superiore ai 100 milioni. La stima per l’intero 2020 è di un calo dei ricavi dell’ordine del 23%, mentre il ritorno ai livelli pre-Covid è previsto nel 2023. Il giro d’affari complessivo nel 2019 è stato di 71,1 miliardi, cresciuto del 20,8% rispetto al 2015 (crescita media annua dl 4,8%). Il peso del settore sul Pil nazionale è cresciuto in parallelo dall’1% all’1,2%. Il comparto dell’abbigliamento contribuisce al 42,9% dei ricavi totali, la pelletteria al 26,1%. Il comparto più dinamico però è quello della gioielleria, che ha mostrato una crescita media annua nell’ultimo quinquennio del 10,3% più che doppia rispetto al settore. A seguire pelli-cuoio-calzature, con una crescita media annua del 7,8%.
Sono state censite 177 aziende: di queste 71, con un fatturato aggregato pari al 37,2% del totale, sono a proprietà estera. Il 17,3% dei ricavi totali fanno capo a gruppi francesi: da sola Kering, secondo gruppo globale, pesa per il 7,3%, Lvmh per il 6,5%.
Il profilo internazionale della moda italiana emerge anche dall’export del comparto manifatturiero, che rappresenta il 66,5% delle vendite complessive, con punte che arrivano al 72,8% nel caso del tessile. Le 177 aziende considerate danno lavoro a 303mila dipendenti con un incremento di 43.700 nuovi posti di lavoro (+16,9%) dal 2015 al 2019. A crescere soprattutto la gioielleria (+45%) e il comparto pelle-calzature (+28,7%).
Le aziende quotate a proprietà familiare vantano il margine operativo migliore (12,9%) e sono più proiettate all’estero, con l’export che rappresenta oltre l’80% delle vendite. Infine, un’indicazione di genere. Il settore occupa personale femminile per il 65,9%, ma nei consigli di amministrazione le quote rosa si fermano a poco più di un quinto.