Avvenire, 18 febbraio 2021
Intervista a Don Backy
Un pirotecnico Don Backy, autore caleidoscopico, cantautore noto al grande pubblico, ma apprezzato anche da un pubblico più sofisticato, attore in film di rilievo e, in teatro, in due musical, scrittore di libri – il primo pubblicato da Feltrinelli, quando la Feltrinelli era ancora Giangiacomo –, pittore e disegnatore legato alle sue origini, a personaggi noti e meno noti, ma di deciso spessore culturale, è il ragazzo ottantenne ricco di sogni che ha condiviso con noi facendoci rivivere un’Italia perduta.
In Pane e tulipani Soldini la scelse per la scena della balera. Perché non optare per un cantautore più impegnato, più vicino alle sue idee?
Negli anni ’60 avevo il titolo di “Voce delle balere”: un complimento per quell’epoca. Poi le mie canzoni piacevano sia al regista Silvio Soldini sia all’attrice Licia Maglietta, la protagonista, che vollero, con mia grande gioia, che fossi proprio io a cantare Frasi d’amore.
Molti sostengono che i più grandi poeti del ’900 siano i cantautori. È d’accordo?
In parte sì. Cantautore è chi riesce a comunicare la sua interiorità, ma uso questo temine malvolentieri perché a differenza di molti non dò messaggi per persone colte, ma come Modugno che spazia in infiniti luoghi dell’anima, anch’io entro in sintonia con le persone con tematiche in cui tutti si riconoscono, anche i meno colti. Preferisco definirmi un “cantainventore”, perché creo canzoni dalle emozioni che mi dà la vita.
Non si considera un cantautore colto, ma i suoi testi evocano letteratura. Penso a Sognando che rimanda alla Merini e a Regina dove cita Paoli.
Se è per questo, sono anche il primo ad essersi autocitato in Samba.
Tra poco inizierà il Festival di Sanremo. C’è qualcosa che vorrebbe dire sul Festival?
Sì, che dal ’72 non lo guardo. Decisi che non l’avrei più seguito finché non avessero accettato un mio brano. Nel ’72 mi rifiutarono Nostalgia, nel ’73 Sognando, canzone impegnata sull’emarginazione, poi
Brinderò. Credo ci sia una volontà precisa di non accettare le mie can- zoni, di non volermi più a Sanremo. Sarebbe bello istituissero una serata per cantanti o gruppi di altre generazioni, invece oggi scelgono cantanti rap più per il loro atteggiamento da riti voodoo d’importazione che non per le canzoni. Hanno cambiato la musica leggera: noi (Dalla, Battisti, Baglioni...) siamo melodici, mediterranei.
Nel suo paese, Santa Croce sull’Arno, c’è la “rotonda L’immensità”. Che effetto le fa un simile riconoscimento?
L’ho apprezzato molto e mi ha emozionato il fatto che la sindaca Giulia Deidda lo abbia realizzato su consiglio dell’amico scomparso Francesco Conte, con l’avallo di Alberto Pozzolini, per me un punto di riferimento.
Alberto Pozzolini, santacrocese,
campione indiscusso del telequiz
Scommettiamo? con Mike Bongiorno, capo ufficio stampa al Piccolo di Milano e alla Pirelli, redattore dell’Enciclopedia Rizzoli-Larousse. Che parte ha avuto nella sua vita?
Era un uomo coltissimo, eccezionale. Prima di pubblicare i miei libri glieli mandavo perché sapeva darmi i giusti consigli. Fu il primo a farmi salire sul palcoscenico, al Teatro Verdi di S. Croce, quando fece la regia di Sotto i ponti di New York di Anderson, ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti. Mi propose una parte che mi corrispondeva, visto che facevo i pesi e indossavo i jeans, quella del teddy boy. In scena non facevo niente, solo dei gesti, ma gli devo anche questo. Lo spettacolo rimase in cartellone pochi giorni, perché Santa Croce è un paese di operai, che non amano andare a teatro. Poi siamo diventati amici. Un giorno partì per Milano. Diventò aiuto regista di Strelher. Dopo un anno anch’io fui chiamato dal Clan di Celentano e lì ci ritrovammo...
Passiamo al Don Backy scrittore: il suo primo romanzo si intitola Io che miro il tondo.
Uscì con Feltrinelli nel ’67, il titolo lo scelse l’editor della casa editrice, ma fu molto apprezzato dallo stesso Giangiacomo. Nel ’68 aveva circa 30 anni. Ero a Milano dove il ’68 si sentì molto, con Mario Capanna, leader del movimento studentesco, che vedevo tutti i giorni in un bar di fronte alla Statale dove c’era sempre subbuglio. Poi in corso Europa, sede del Clan, c’erano manifestazioni, scontri con la polizia, cortei.
Bilancio di quel periodo visto con gli occhi di oggi?
Negativo, perché quella rivoluzione non portò niente, non ci furono conquiste significative. Il ’68, per me fu soltanto drammatico come quando esplose la bomba in piazza Fontana. Ero in Galleria del Corso con Gian Maria Volonté. Ci fu un botto tremendo e una donna che correva verso di noi urlando: «È scoppiata una caldaia!». Poi auto della polizia, gente che correva, ambulanze… Era il 12 di dicembre ’69 e stavo rientrando a S. Croce per le feste.
Com’era il suo amico Gian Maria Volonté?
Schivo, ma anche compagnone, specie quando, amici e colleghi, lavorammo con lui nel cast del film I sette fratelli Cervi e in Banditi a Milano.
Il suo ultimo album si intitola Pianeta donna. Che idea si è fatto delle donne e del femminismo?
Ho un’alta concezione della donna, perché ha un intelletto superiore e lo si vede dai posti importanti che occupa in tutti i campi. Non lo dico per far bella figura, ma perché lo vedo anche in mia moglie. Nel periodo del femminismo becero invece credo che la donna perse molti punti. Non amo la donna spavalda, aggressiva, amo invece quel tipo di donna in grado di preservare la sua femminilità.
Domanda letteraria: tra i toscani celebri del passato si sente più vicino a Dante, Boccaccio o Machiavelli?
Ho il “mio” Inferno, una graphic novel con disegni e testi miei e voce di Alessandro De Gerardis. Un lavoro di due anni che adesso vorrei proporre alla Rai.
C’è un notevole lavoro linguistico in questo suo lavoro.
Lo dico alla fine: mi è servito per imparare la grammatica italiana e a verseggiare.
A proposito di Dante, le piace la lettura della Divina Commedia che per anni ha portato avanti Roberto Benigni?
Apprezzo il comico Benigni, istintivo. Lo trovo bravissimo in Johnny Stecchino e nel Piccolo diavolo, film dalla comicità surreale. Non l’ho amato in Pinocchio perché ha distrutto il mio sogno di bambino, quello che invece ritrovavo nei film di Disney e di Comencini. Neppure nel Geppetto del film di Garrone mi è piaciuto. Secondo me Benigni fallisce ogni volta che tocca Pinocchio.
Don Backy, programmi per il futuro?
Sto pubblicando una pentalogia
Senza capo né coda, il primo e Cose da pazzi. Libri divertenti, illustrati da me. Protagonisti due cugini fiorentini, l’elegante Ciso, ispirato a Narciso Parigi, mentre l’hippie Arno sono io, un ricco zio lascia eredi di un’eredità vincolata a cinque indovinelli collocati in altrettante città. In cosa consiste l’eredità? Questo non lo rivelo.