La Stampa, 18 febbraio 2021
Tahar Ben Jelloun: «il mio amico Umberto Eco»
Gli manca Umberto. «Era un uomo pieno. Pieno di parole, di storie da raccontare, di generosità, di buon cibo». Lo ricorda così, Eco, l’amico Tahar Ben Jelloun, nel suo appartamento a Parigi, nel Quartiere Latino. Lo scrittore italiano era nato nel 1932, Tahar aveva 15 anni di meno. «Mi ricordo soprattutto tante cene con lui a Parigi, Milano e Bologna. Non ci si poteva annoiare un secondo. Una cena con Umberto ne valeva cento con un’altra persona. Uno tornava a casa e aveva riso così tanto. E non solo: aveva sempre imparato qualcosa. Era un’enciclopedia vivente, aveva una cultura enorme. Ma era pure modesto, con uno spiccato senso pedagogico. Delle volte, mentre mangiavamo, prendevo appunti». Sono trascorsi cinque anni dalla sua morte. In un pomeriggio di febbraio il pensiero di Tahar va all’amico scomparso. Senza melanconia, mai.
Come l’aveva incontrato?
«Grazie a Bompiani, che era il nostro editore, e a Mario Andreose ed Elisabetta Sgarbi, coinvolti in quella casa editrice e poi nell’avventura della Nave di Teseo. Ci siamo frequentati per una trentina d’anni».
Il suo ultimo ricordo?
«Ancora una cena, a Milano, a casa di Elisabetta. Era il 23 novembre 2015, quando si lanciò La nave di Teseo, alla quale mi ero subito associato. Quella sera, a chi esprimeva dubbi sulla scelta del nome della nuova casa editrice, lui rispose con una sorta di lezione di mitologia, appassionante come sempre. Raccontò la storia di Teseo, giovane re unificatore e sposo sfortunato di Fedra».
Stava già male?
«Io non mi accorsi di nulla. Approfittando del fatto che non ci fosse sua moglie, beveva un whisky dietro l’altro e non dava la sensazione di essere malato. Fu brillante come sempre. C’eravamo dati appuntamento a Parigi dopo le vacanze di Natale e invece morì di lì a tre mesi».
Se la ricorda la sua voce?
«Certo, lavorata dal tabacco e dall’alcol. Veniva da lontano e al tempo stesso era familiare».
Le piaceva l’Eco scrittore?
«Di lui ho letto vari saggi. Ma devo essere sincero, ho letto un solo romanzo, Il nome della rosa. Quel libro dimostra come le religioni non sopportino il ridere, l’ironia. Il pendolo di Foucault l’ho iniziato più volte ma non sono mai riuscito a finirlo. Non riuscivo a capire tutto. Devo ammetterlo, non ho tutti gli strumenti culturali necessari per leggerlo».
Un testo troppo complesso?
«Forse. Ma riguardo a Eco a me piace parlare di "elitismo per tutti", perché sapeva spiegare e raccontare ai più. Una volta a Bologna gli chiesi: ma perché si dice "ghetto"? E lui partì in una delle sue solite storie, la parola deriva da "gettare". A Umberto piaceva anche parlare del proprio processo creativo. Raccontava cosa stava scrivendo e come».
Affrontavate solo temi culturali?
«No, spesso argomenti leggeri. Uno, per esempio, era il vino. Per lui quello vero era solo bianco e io rispondevo che non c’era storia, il vino per eccellenza è rosso. E lì partivamo in lunghe diatribe».
Con l’Italia che rapporto aveva?
«Con il passare del tempo difficile, soprattutto con quella dei due decenni del berlusconismo. Umberto era un intellettuale puro e integro. Da quell’Italia non solo era deluso, era annientato e umiliato. Per lui significava il trionfo della volgarità e lo sdoganamento della corruzione. Quando veniva a Parigi, rilasciava interviste alla tv francese, mentre su quella italiana non voleva più passare».
Perché?
«Lo stuzzicavo, ma diceva che l’aveva deciso e basta, non sarebbe ritornato indietro. Era uno che approfondiva. La deriva verso una rapidità esasperata e la superficialità di certi giornalisti non le sopportava più. E dire che era affascinato dai media, aveva trascorso una vita a studiarli».
Rimpianti riguardo a Eco?
«Era un grande spirito, che avrebbe meritato il Nobel. Gli hanno preferito Dario Fo, che è una cosa incredibile. Eco era un agitatore, sarebbe stato come il Nobel conferito a Bob Dylan. Era al corrente di tutto quello che succedeva. E alla fine della sua vita si era perfino ribellato all’informatica e non aveva cellulare. Rifiutava questo con intelligenza, non per snobismo. Diceva che bisognava far lavorare le mani e la testa».