La Stampa, 18 febbraio 2021
Yemen, la guerra dimenticata
Nella piana che degrada dalle montagne brulle, color rosso e ocra, verso i deserti dell’Arabia meridionale, si consuma l’ultimo atto della tragedia yemenita, a dieci anni dalla primavera araba, a sei dal colpo di mano degli Houthi, i guerriglieri sciiti che dal febbraio 2015 controllano la capitale Sanaa e sognano di dare scacco matto agli odiati sauditi. I mujaheddin in ciabatte sono scesi dalle creste rocciose che hanno difeso con i denti e il Kalashnikov e sono a un passo dalla conquista di Marib, una città polverosa e anonima, un tempo meta di turisti avventurosi, perché a una quarantina di chilometri dalle rovine del mitico Regno di Saba. La Coalizione guidata da Riad ne aveva fatto il suo quartier generale in questa guerra per procura con l’Iran che ha già fatto più di centomila morti, e affama oltre metà dei trenta milioni di abitanti, con quattro famiglie su dieci costrette a indebitarsi per comperare le medicine ai figli, come ha documentato l’ong Oxfam.
Soltanto due anni fa l’unico albergo decente della città, dal nome improbabile di Louver, scritto proprio così, era bazzicato da ufficiali delle forze speciali e dell’intelligence, che organizzavano la campagna anti-Houthi assieme ai capi delle tribù locali. Le milizie jihadiste, già specializzate in sequestri di occidentali, si erano convertite alla moderazione davanti ai dollari sauditi. A 15 chilometri dal centro della città una base aerea alimentava le forniture di armi con un continuo ponte aereo dall’Arabia Saudita, elicotteri da trasporto scortati dai potenti Apache. Saana era «a soli 40 chilometri», la mazzata finale agli Houthi sembrava vicina. E’ andata in un altro modo. Le forze governative fedeli al presidente Abd Rabbu Mansour Hadi si sono liquefatte, due giorni fa si sono ritirate dalle postazioni alla periferia di Marib, i guerriglieri sciiti sono a 7 chilometri dal centro, migliaia di sfollati devono trovarsi un altro rifugio.
Riad, in sei anni, non è riuscita a creare un vero esercito nazionale, in realtà un’accozzaglia di milizie dominate dai seguaci di Islah, la Fratellanza yemenita. Gli emiratini, che diffidano dei Fratelli ancor più dei sauditi, si sono defilati e hanno puntato sui separatisti del Sud, per ritagliarsi un protettorato ad Aden. Gli Houthi, si sono trovati di fronte una fanteria che passa il tempo a masticare qat, la droga nazionale, e aspetta il misero salario, quando arriva. Sono più motivati, addestrati da consiglieri iraniani e libanesi, che hanno trasferito tecnologia e tecniche di "hybrid warfare", un misto fra guerriglia e uso di droni e missili, oltre a razzi anti-carro che hanno fatto strage dei blindati nuovi di zecca. Riad può rispondere soltanto con l’aviazione. Ma il taglio dell’assistenza, rifornimenti in volo, e della vendita di munizioni da parte dell’Amministrazione Biden, ha ridotto il numero di raid che può effettuare.
Per salvare Marib, e la faccia, al principe Mohammed bin Salman servirà la diplomazia. C’è pure questa posta in gioco, nella battaglia di Marib. Assieme alla Libia e alla Siria, lo Yemen è il Paese che ha pagato il prezzo più caro al fallimento della primavera araba. La sollevazione popolare aveva portato alle dimissioni del raiss Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di lotte, il 27 febbraio 2012. Ma era una finta. Saleh continuava a brigare, finché, lui sunnita, si è alleato per tornare al potere con gli ex nemici sciiti, il movimento Ansarullah, fondato da Hussein Badreddin al-Houthi. E di lì la guerra civile, e poi regionale, è entrata in una spirale senza fine. Saleh è stato alla fine ammazzato dagli Houthi, dopo una nuova giravolta, alla fine del 2017.
Nel frattempo Trump dava carta bianca a Bin Salman, con l’obiettivo di stroncare le ambizioni imperiali iraniane. Il dramma umanitario, il dilagare del colera, le foto dei bimbi scheletriti, i raid su scuole e scuolabus, su ospedali, compreso quello di Medici senza frontiere, hanno fatto cambiare idea all’America. Ora Joe Biden è intenzionato a mettere fine al carnaio. Non vuole però la caduta di Marib, che darebbe troppo potere a Teheran. Ha rimesso in campo la diplomazia con il suo inviato speciale Timothy Lenderking. E punta a trattare solo con il padre di Mbs, Re Salman, che a suo tempo aveva messo in guardia il figlio sui rischi del "Vietnam yemenita", che già negli Anni Sessanta aveva logorato l’Egitto di Nasser. Aveva ragione.