Corriere della Sera, 18 febbraio 2021
Un’altra intervista a Bobby Solo
Sua moglie come la chiama: Roberto o Bobby?
«Lei Honey, tesoro».
E i suoi amici?
«I conoscenti casuali Bobby. Gli amici di lunga data Roberto. La mia mamma mi chiamava Robi».
Ma a lei quale piace di più?
«A me Bobby: è il mio marchio di fabbrica».
Metà della conversazione con Bobby Solo, nome d’arte di Roberto Satti, 76 anni il 18 marzo, si svolge per telefono mentre guida l’auto, l’altra metà quando arriva nella sua casa di Pordenone, dove vive con Tracy, americana coreana di 26 anni più giovane, e il loro figlio Ryan, otto anni. La tentazione di chiedergli di cantare Una lacrima sul viso è forte , ma la intonerà dopo, per farne capire l’estensione vocale. Prima, è un amarcord lungo quasi 8 decenni.
La leggenda narra che per sei mesi sia stato nutrito con acqua e zucchero. Poi suo padre vendette due medaglie d’argento guadagnate in guerra come pilota mitragliere e comprò il latte in polvere. Riesce ancora a berlo?
«Altroché, quello fresco... Contiene il triptofano, che aiuta il sonno. È per questo che i vecchietti la sera lo bevono tiepido e io credo nelle cose antiche: pasta e fagioli anziché sushi, salsicce e polenta, minestra di riso e piselli».
Suo padre era molto severo e spesso la mandava a letto senza cena. Cosa combinava?
«Beh, facevo delle marachelle... Ma mia sorella Fiorenza veniva in camera e mi portava un panino con formaggino Tigre e prosciutto».
Però non mi ha detto «quali» marachelle.
«Amavo i fiammiferi... Una sera in terrazza mescolai polvere da sparo con zinco e magnesio. Da una scintilla partì una botta che illuminò i quattro piani del palazzo di fronte. E io mi ritrovai con le ossa della mano, senza più polpa: ho una mano più giovane dell’altra».
Altre imprese degne di nota?
«Sempre con i fiammiferi, una scatola di latta e un cilindro di Calcium Sandoz creai un missile che finì nella finestra del rettore del mio ginnasio: 15 giorni di sospensione. Un’altra volta, in chiesa, con un compagno facemmo esplodere dei petardi: altri 15 giorni».
Non sono marachelle: lei era un teppista!
«A 13-14 anni con Renzo, figlio di un detenuto per quattro omicidi, andavamo a Villa Glori a rubare le moto degli innamorati, le smontavamo e le rivendevamo a Porta Portese. Durante le Olimpiadi di Roma ci infilammo negli spogliatoi e rubammo i portafogli alle nuotatrici. Scampai il carcere. Poi mio padre si fece trasferire a Milano. Appena raggranellai i soldi per pagare il treno a Renzo lo feci salire, avevo 16 anni, e ci scolammo una bottiglia di gin: mi risvegliai all’ospedale in una camicia di forza, pare avessimo tentato di spruzzare gli sconosciuti con la benzina. Ricordo che mio padre venne a prenderci con il loden verde...».
Non poteva più mandarla a letto senza cena.
«No, ma mi picchiò piuttosto bene».
La musica l’ha salvata dal futuro criminale.
«Sì, è abbastanza vero».
Eppure è sordo all’orecchio destro.
«Sono nato senza il nervo uditivo».
Prende la pensione di invalidità?
«No, non ci ho mai pensato. Però se senti dall’altra parte non credo te la diano».
Ascolta la musica a volume alto?
«Io sento mono, non stereo. Ma il mio cervello ha compensato e sono intonatissimo».
A quale canzone è più affezionato?
«Non Una lacrima, ma Non c’è più niente da fare, un country valzer del ’67».
Giuri.
«Mogol si era separato dalla moglie Serenella e la casa discografica voleva un disco per fargli fare pace. Io non ero convinto. Così nella facciata A cantai Serenella com’eri buona com’eri bella, ma nella facciata B registrai Non c’è più niente da fare e venne scelta come sigla per una serie tv dedicata a Totò. Vendette 1,8 milioni di copie. Fu una bella soddisfazione».
La «Lacrima» ne vendette 12 milioni.
«Nel mondo. In Italia due milioni».
Però non si arricchì con quella canzone.
«Mi costrinsero a rinunciare ai diritti di autore approfittando dei miei 19 anni. Non nominerò il direttore artistico che se li attribuì».
Grazie a Red Ronnie ne riebbe una parte.
«L’avvocato Giorgio Assumma ha bloccato i diritti d’autore dal 1978 in poi. Con Red successe che andai a cantare a Bertinoro dai tossicodipendenti e a cena dissi: “Se qualcuno mi aiuta a recuperare quel che mi spetta gli do il 50%”. Poco dopo si materializzò un foglio protocollo con carta bollata. Lui fece arrivare dall’estero il direttore che mi restituì la canzone».
Con i diritti d’autore non è fortunato. La settimana scorsa i suoi legali hanno presentato a Napoli una denuncia per il furto ultratrentennale dei diritti delle sue canzoni.
«Sono arrivato a Emme Team tramite l’avvocata di Mogol: lei stava seguendo una frode che riguarda molti artisti italiani. A quel punto ho messo a disposizione dieci contratti discografici per i quali non ricevevo mai i rendiconti. Penso di aver perso almeno un milione di euro. Quello che ho, l’ho guadagnato con le serate e il lavoro in Rai e Mediaset».
Dispiaciuto di non essere più ricco?
«Non sono mai stato furbo, ho pensato più al piacere di fare musica e condividerla con il pubblico che ancora mi vuole molto bene».
Parliamo delle fan: chissà che follie.
«Mi arrivavano sacchi di lettere alti due metri a cui io e mamma rispondevamo insieme».
Non la mette a disagio l’amicizia con la famiglia mafiosa dei Gambino?
«Non ho mai avuto nessuna amicizia con i Gambino, ma sono una persona riconoscente. Nel ’77 feci una tournée in America con Franco Franchi, Lino Banfi, Rosanna Fratello e altri. L’impresario era un po’ tirchio e mi dava 15 dollari al giorno come rimborso pasti. I Gambino venivano spesso alle prove, amavano i cantanti italiani. Così quando dissi al body guard di Gianni Gambino che avevo sempre fame, lui mi fece dare 50 dollari al giorno per tutti i 40 concerti in programma».
Negli anni Novanta, però, cantò al matrimonio della figlia del boss, Rosanna.
«Mi chiamò l’impresario di Mike Bongiorno e disse che dal penitenziario di Reno Gambino aveva chiesto che cantassi alla festa a Staten Island e chiedeva quanto volevo. Risposi che andavo gratis, volevo sdebitarmi. Loro poi mi diedero 10 mila dollari scartocciati “per i regali ai bambini”. La sera in albergo stirai le banconote con un posacenere Lucky Strike».
Chi le disse: «Col fisico mio e la voce tua avremmo fatto un grande cantante»?
«Little Tony: mai stati rivali. Lui si concentrava sull’immagine, a me interessava la voce di Elvis. Io ero audio, Tony video. Fin dal primo Sanremo, mi trattò come un fratello minore: io ero arrivato con diecimila lire che dovevano bastare per tutto il Festival. Lui aveva già una Jaguar verde metallizzata. Mi faceva fare certe cene con aragoste e spigole... Sono tornato da mia mamma con le 10 mila lire intonse».
Siete rimasti amici negli anni.
«Quando stavamo lavorando a Mediaset con Rosanna Fratello, lui era giù perché la fidanzata lo aveva lasciato e io lo rincuoravo. Poi alla vigilia di Natale mi invitò a casa sua. Quando dovemmo scartare i regali, vidi sotto l’albero due Gibson Jumbo. “Guarda questo furbacchione, si è regalato due chitarre”, pensai. E invece si avvicinò e me ne diede una: “Questo è il regalo per il mio psicanalista privato”».
Nel libro-intervista scritto con Dario Salvatori, «Cronache di Una lacrima sul viso», racconta di Lucio Battisti che veniva a mangiare la frittata con patate e cipolle da sua mamma.
«Sì, arrivava con una 500 rossa targata Rieti. Poi hanno cominciato a dargli qualche anticipo e l’aveva cambiata con un’Alfa Romeo Gt».
Con Celentano vi vedevate in farmacia.
«Alle 3 di notte, alla farmacia Imbesi dell’Eur. Soffriva d’insonnia. Mi chiedeva: vuoi un Cebion o un Agruvit? (ne imita la voce, ndr)».
Incontri pazzeschi?
«Tom Jones e Johnny Cash. Il primo a Roma: nei corridoi Rai gli diedi il mio numero, la notte chiamò il manager dicendo che voleva venire da me. Svegliai mamma che gli offrì del gin. Lui lo tracannò, accese un sigaro cubano e si mise a suonare la mia Eko a 12 corde. Johnny Cash lo vidi in Germania, dove avevo venduto tre milioni di dischi: in camerino mi strinse la mano, mi impressionò quanto era alto».
Memorabilia di Elvis?
«Provai a farmi mandare un autografo dal suo manager ma mi chiese sei milioni di lire: non li avevo. Però il mio amico Luca Barbonaglia mi ha regalato un orsacchiotto originale di quelli venduti quando cantava Teddy Bear».
Ora ci gioca suo figlio Ryan?
«No, Ryan gioca con un orso tedesco grande e grosso che avevo regalato al mio primogenito Alain: lui adesso ha 52 anni».
Alain è stato nella comunità di San Patrignano per l’eroina. Si è mai sentito in colpa?
«No, perché non ho mai abbandonato i miei figli. Il problema è stato il branco in un bar a Casal Palocco. Ne è uscito benissimo, mi ha dato 4 nipotini, alleva golden retriever. Red Ronnie mi aiutò a bypassare la lista d’attesa: senza il suo intervento Alain sarebbe morto».
È credente?
«Moltissimo. Vado in chiesa a pregare una volta alla settimana, quando non c’è nessuno. Mia moglie anche tre-quattro volte».
Vi siete sposati nel 1995, dopo un fidanzamento lampo. Nemmeno i suoi testimoni di nozze credevano sarebbe durata.
«E invece è il mio vero amore romantico».
Ha rimpianti?
«Nessuno: ho fatto molti errori, ma sono contento di averli fatti per mia decisione».
Ryan ha 8 anni. È portato per la musica?
«A 3 anni guardava i dvd di Eric Clapton e sembrava interessato. Ora vede gli YouTuber di 14 anni. Il mondo va così».