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 2021  febbraio 17 Mercoledì calendario

Petrolio, un milione di barili in meno

I paradossi del mercato dell’energia: può uno Stato che se fosse indipendente sarebbe il terzo produttore mondiale di petrolio non riuscire a scaldare d’inverno i suoi cittadini? Se si tratta del Texas di oggi, inaspettatamente bloccato da grandi tempeste di neve, la risposta è affermativa. 
L’inatteso freddo record – determinato dalle sempre più frequenti rotture del vortice polare, a loro volta effetto del «climate change» – ha messo in ginocchio un territorio che da solo produce il 40% del petrolio Usa (4,6 milioni di barili al giorno), il 25% del suo gas, il 30% dell’energia eolica e può contare su 30 raffinerie. Tutto fermo – pozzi, pale eoliche, raffinerie, forniture di gas – e, soprattutto, niente riscaldamento per quattro milioni di abitanti a causa dei blackout elettrici dovuti all’impennata della domanda e al repentino calo di offerta. 
Va da sé che le conseguenze non si sono limitate al Texas e ad altri Stati americani. Perché la scomparsa di almeno uno o più milioni di barili dal mercato ha sospinto al rialzo i prezzi del greggio. Non solo quelli dell’area americana, con il benchmark nordamericano, il Wti (West Texas Intermediate) che ha sorpassato quota 59 dollari al barile. Ma anche quelli internazionali, con il Brent che da qualche giorno staziona intorno ai 63 dollari, un livello che non si vedeva da prima della pandemia e un robusto guadagno dai 20-25 dollari di fine marzo-metà aprile del 2020.
Un andamento al rialzo comune a diverse altre commodities, alle Borse e a strumenti finanziari controversi come il bitcoin. Tutti spinti nelle ultime settimane dalle attese per una ripresa mondiale generalizzata, sostenuta dalla partenza delle campagne vaccinali. 
Sul fronte del petrolio, però, iniziano a farsi strada attese per rialzi ancora più consistenti. Non una novità per gli analisti del settore, che negli anni passati hanno assistito a predizioni roboanti, soprattutto da parte delle banche d’affari. Ora la storia si ripete,con Goldman Sachs, JpMorgan Chase e altri che non escludono che un progressivo abbattimento della pandemia (nuove varianti e imprevisti sviluppi negativi a parte) possa portare il barile a 100 dollari e oltre. Livelli impensabili se si ricorda che il 20 aprile di un anno fa le tempeste finanziarie in direzione opposta all’attuale avevano portato il prezzo del petrolio in terreno negativo, addirittura a meno 37 dollari al barile. Che cosa spingerebbe i prezzi in tale direzione? Come sostiene un’analista citato dal Financial Times, Jeffrey Currie di Goldman Sachs, le classi medie e medio-basse che sosterranno la prevedibile ripresa dei consumi «non guidano Tesla, ma Suv». Tradotto: la spinta sui diversi «Green Deal», dagli Usa all’Europa, anche se sostenuta e accelerata, non farà in tempo a mettere fuorigioco il petrolio e i suoi prodotti derivati. Il mondo, insomma, potrebbe avere ancora bisogno del greggio per un imprecisato arco di tempo (anni, decenni?) e i produttori potrebbero trovarsi in difficoltà nel soddisfare questa domanda, proprio perché negli ultimi anni hanno cancellato gli investimenti necessari a rimpiazzare i giacimenti dove la produzione declina. Con l’eccezione dello shale americano, per buona parte dell’industria petrolifera il ciclo investimenti-produzione ha una durata di qualche anno. E nell’attesa i prezzi potrebbero schizzare in alto.