il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2021
«Mamma adorata, dividendo il mio pensiero tra te, Clara e il mio povero morto che amavo più di me stesso, devo far tutto come un automa». Ancora sulle lettere di Gadda
Degli anni della guerra del sottotenente del 5° Reggimento Alpini Carlo Emilio Gadda conoscevamo finora il giornale che egli tenne dal 1915 fino al 1917, quando venne fatto prigioniero a Caporetto e portato in un campo in Germania, e alcune lettere alla madre e alla sorella Clara.
Adelphi pubblica oggi le lettere inedite tra Gadda e i familiari, con cartoline, disegni e fotografie dello scrittore, allora solo studente d’ingegneria: La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-1919), una raccolta che testimonia di una parabola biografica da cui scaturirà la scrittura più fulgida del Novecento.
È in questo periodo che si saldano e si sfaldano i suoi legami più cari e si cristallizzano le sue più feroci ossessioni. Le lettere sono un fiume che passando sugli eccidi della Prima Guerra Mondiale raccoglie i sedimenti della sua esistenza sofferta e feconda: l’insofferenza per il prossimo, il rapporto ambivalente con la madre, l’incapacità di legare coi compagni (a parte Bonaventura Tecchi, con lui durante la prigionia), la ricerca di un ordine nei rovesci di un caso falcidiante, il sentimento di esser stati traditi, la perdita irreversibile di una “inesistita giovinezza”.
Nella privazione dei ricoveri di fortuna, Gadda è ironico: “Qui comincia a fare un freddo bojazzo – Tuttavia io non vacillo: abbiamo fatto una baracca ufficiali veramente chic. Salutami tutti i taliàn che ti capitano a tiro di piede in cul, e digli che sono una massa di elefanti zoppi”, scrive al fratello Enrico, anch’egli soldato. Si perita di non creare “terribili ansietà” alla madre: “Sto sempre benissimo e di ottimo umore”; “Se tu sapessi, cara mamma, come sono allegro, pacifico, attivo”. Prega Enrico, suo alter ego esuberante e vitale, di salvaguardarsi e di non fare spese inutili. Sprazzi di tenerezza in una vita che sta volgendo al dolore: “Carissimo Enricotto, mi congratulo della tua prova di brevetto”; “Carissima mamma, ricorre oggi il mio ventitreesimo compleanno”. Con la madre impreca contro l’incuria e il pressapochismo degli italiani, questa “razza di maiali, di porci”: “Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tenere ordinato il proprio tavolino da lavoro?”.
Il signorino in divisa è un figlio della borghesia. Si è arruolato perché la guerra, “necessaria e santa”, gli pare un’occasione di riscatto esistenziale e un’esperienza estetica; essa è l’alveo della gloria che lo tirerà fuori da una vita di shocks, al plurale, fame e sacrifici (il padre li aveva fatti fallire con l’acquisto di una villa in Brianza). Crede nella Patria, “la mia terra divina”.
La buona borghesia lombarda, nelle forme di famiglie-alveari (poi satireggiate in San Giorgio in casa Brocchi e nell’Adalgisa), provvede alla sopravvivenza dei due fratelli, inviando scarpe, calze, una rivoltella, guanti, dolci.
Progressivamente monta in lui la delusione: la guerra è miseria, improvvisazione. A Caporetto, insieme all’onore patrio crolla l’Ottocento, con le sue illusioni di progresso. Si palesa “la deficienza del mondo” che sarà uno dei fulcri della filosofia gaddiana, massimamente espressa ne La cognizione del dolore.
Infine, lo shock definitivo: la morte del fratello Enrico, precipitato col suo aereo sopra ad Asiago; Carlo Emilio la apprende dalla madre che gli apre la porta, tornando in congedo nel 1919. Scrive nel diario: “La tragica orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo. Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi presto tutta la vita”.
Insieme ai ricordi del male patito fermenta in lui la varietà della lingua italiana con le sue tipicità dialettali, verso cui, come scrisse Tecchi, Gadda “era tutt’orecchi”: “Era attento alle parole, a quelle che volavano nell’aria della baracca”.
Scrive da Firenze alla madre: “Mamma adorata, dividendo il mio pensiero tra te, Clara e il mio povero morto che amavo più di me stesso, devo far tutto come un automa”. Si edifica così, attraverso la cognizione fisica e mentale del dolore, quella geometria tirannica, angosciosa, luminosa, proveniente da un teatro delle esattezze e degli incastri, che si ritroverà nella materia inaudita dei capolavori di Gadda.