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 2021  febbraio 17 Mercoledì calendario

Breve storia di poveraccio che finì in manicomio

Bastava una semplice illusione o delusione, o essere di intralcio a qualche affare di poco conto, o a un rimescolamento familiare. Sembrare troppo vivaci o introspettivi; avere un appetito da lupi o non averne affatto. E se eri povero in canna, cresciuto in un brefotrofio oppure figlio di genitori per cui costituivi solo un peso, il tuo destino era segnato in partenza. Che ti ci recassi con le tue gambe, o con un ricovero coatto, finivi in manicomio e non ne uscivi più.
Una volta dentro, si spalancava l’inferno. Camicie di forza, corpetti, gabbie, cocktail di psicofarmaci. E se dicevi una parola fuori posto, subivi “la maschera”: una tela intorno alla testa, bagnata con l’acqua, che diventava impermeabile all’aria generando un soffocamento transitorio. Una “cura” adottata anche in Vietnam. E poi gli elettroshock. Racconta Francesco B, ricoverato la prima volta nel 1948 senza una ragione precisa: “Non era bello, faceva paura, gridavo come un orso. Si faceva da svegli, si perdevano i sensi e ci si addormentava. Ci si svegliava con un panno in bocca”.
Ma arrivò Franco Basaglia a picconare quest’orribile istituzione totale, rimasta ferma all’800. I manicomi si aprirono al mondo esterno: i degenti uscivano, lavoravano retribuiti, partecipavano ad assemblee. Nella primavera del 1968 Anna Maria Bruzzone, insegnante e ricercatrice scomparsa nel 2015, visse due mesi nello psichiatrico di Gorizia, dove da qualche anno Basaglia e la sua équipe di medici e infermieri portavano avanti la loro sperimentazione e battaglia. Trascorse decine di ore con gli ospiti: ne trascrisse ricordi, dolori, cicatrici e aneliti. Senza montaggi o filtri. E nove anni più tardi replicò con l’analoga struttura di Arezzo, anch’essa diretta da un basagliano.
Di questo duplice rendez-vous con la grande storia, in uno dei suoi incroci epocali, ci dà mirabilmente conto Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio, riedito dal Saggiatore in versione moltiplicata rispetto all’originaria del 1979.
Un’opera ribollente di un’umanità irriducibile, che dà libertà e dignità d’espressione postuma agli ex dannati del sottosuolo della coscienza collettiva nazionale. Li fa rinascere dopo oltre un secolo di morte sociale e civile. C’è Albino B., classe 1907: “Se fossi stato ricco, certo non sarei venuto all’ospedale psichiatrico”. C’è Maria Pia Z., rinchiusa con la gemella (per “nevrastenia”) dai 14 anni: “Le suore del collegio ci portarono qui, non eravamo malate. I medici mi lascerebbero andare a casa, se sapessi dove andare”. Perché se ci fosse una casa in cui tornare “sparirebbe tutto il dolore”, assicura Valburga C., detenuta in attesa di nessun giudizio dal 1943. Perché “l’uomo in un caos diventa un caos, e fatto vivere come una bestia diventa bestia”.