Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 16 Martedì calendario

Gasbarrone, il fuorilegge acclamato

Roma fu capitale del malcostume già nei tempi antichi, duemila anni prima del 1870. Carlo Alberto Brioschi nella sua Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri (Tea) anni fa raccontò sinteticamente ma con grande precisione come, assieme a Babilonia e ai più importanti insediamenti urbani dell’antica Grecia, la città eterna divenne ben presto un centro del malaffare. Riferì, la Breve storia della corruzione, che Plutarco aveva spiegato come e perché il nome del triumviro Marco Licinio Crasso – proconsole di Siria ucciso dai Parti – divenne sinonimo «di una ricchezza spropositata e dalle origini sospette». Di come Sallustio riferì che ai suoi tempi, tra gli uomini di potere, «ognuno afferrava quel che poteva, strappava, rubava… Lo Stato veniva governato dall’arbitrio di pochi che avevano in mano il tesoro, le province, le cariche, le glorie e i trionfi». Di come lo stesso Sallustio scandalizzò i contemporanei per i suoi arricchimenti illeciti e dovette ricorrere alla protezione di Cesare per difendersi dai giudici che lo avevano preso di mira. Di come persino un grande fustigatore dei vizi altrui, Catone il Censore, subì oltre quaranta processi per corruzione.
Riprese, Brioschi, i nomignoli affibbiati da Plauto – nelle sue cento e passa commedie – a questo o quel personaggio pubblico: «Rincorri-pasto», «Strangola-vino», «Scopa-tinello», «Ammira-piatto», «Lecca-pentole», «Caccia-pranzo», «M’invito-da-me». Spiegò come Cicerone – che pure aveva accusato il governatore della Sicilia Verre di essere un tangentocrate incallito – avesse avuto rapporti con gli stessi ambienti corrotti contro cui aveva puntato l’indice. Tito Livio tenne a ricordare che Lucio Scipione Asiatico, fratello di Scipione l’Africano, fu accusato di aver addirittura «trattato» in cambio di denaro un trattato con il re siriano Antioco. Per far ottenere ad Antioco «una pace a migliori condizioni», scrisse Tito Livio, Scipione avrebbe ricevuto seimila libbre d’oro e quattrocentottanta d’argento.
La corruzione scorreva come il sangue nelle vene della città. Che ad un certo punto smise financo di vergognarsene. A Roma, sostenne Tacito, «confluiscono tutti i peccati e tutti i vizi per esservi glorificati». Ed è stato così per secoli fino al tempo dei Papi. Poi la breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale della Chiesa. In molti sperarono che con Roma capitale d’Italia le cose, almeno in parte, sarebbero cambiate. Quantomeno sotto il profilo simbolico. Ma non fu così. Anzi.
Per spiegare quel che accadde, proprio sotto il profilo simbolico, occorre tornare a qualche anno prima di quel fatidico 1870. Il 17 aprile 1831 arrivò a Civitavecchia un console assai particolare. Si chiamava Marie-Henri Beyle ma era già conosciuto con il nome di Stendhal. Lo scrittore, calcola Leonardo Sciascia in L’adorabile Stendhal (Adelphi), aveva all’epoca quarantotto anni. In gioventù era stato colto da grande passione per Bonaparte, poi, dopo aver patito – negli anni successivi al 1815 – per la restaurazione borbonica, ai tempi della «rivoluzione di luglio» (1830) aveva deciso di mettersi a disposizione del nuovo potere orléanista. La Francia di Luigi Filippo, per saggiarne l’affidabilità, lo aveva assegnato ad un incarico non di primo piano: console nella città pontificia di Civitavecchia. Il Papa appena eletto (Gregorio XVI) non aveva gradito la nomina di Stendhal, notorio miscredente. Ma il cardinale Tommaso Bernetti aveva convinto il Pontefice che avere a disposizione un personaggio di quella statura – con un incarico per giunta che non gli avrebbe consentito di far danno – poteva rivelarsi un’opportunità.
Lo scrittore era già assai famoso, reduce, oltretutto, dall’aver dato alle stampe – proprio tra la fine del 1830 e l’inizio del 1831 – il romanzo Il Rosso e il Nero. Nelle biografie di Stendhal, Civitavecchia è ricordata esclusivamente come il luogo in cui iniziò a scrivere Souvenirs d’égotisme. Eccezion fatta per un dettaglio: come già Sciascia, Enzo Ciconte – in L’assedio. Storia della criminalità a Roma da Porta Pia a Mafia capitale, che sarà pubblicato il 25 febbraio da Carocci editore – nota la grande sorpresa di Stendhal quando si accorse che, in quella «petite ville» dotata di un carcere che ospitava un migliaio di galeotti, «su cento stranieri che passano» – scrisse ad un amico – solo quattro o cinque chiedevano di lui (nonostante fosse, come s’è detto, uno scrittore di fama internazionale) mentre erano dieci volte di più coloro che volevano vedere «il celebre brigante Gasperoni». E chi era questo brigante?
Si chiamava Antonio Gasbarrone (o Gasparone), era nato ai confini tra Lazio e Campania e aveva combattuto contro il Papa, contro i Borbone, contro Napoleone, contro Murat, contro tutti insomma. Poco tempo prima dell’arrivo di Stendhal a Civitavecchia, era stato arrestato grazie ad un saltafosso del vicario di Sezze, don Pietro Pellegrini, che lo indusse a consegnarsi prospettandogli un’immediata amnistia.

Il giornalista Ugo Pesci, che fu autorizzato ad intervistarlo, nel libro I primi anni di Roma capitale (1870-1879) edito da Bemporad, ne parlò in questi termini: «Era un rozzo ed ignorante ciociaro, dotato di tendenze megalomani ma sprovvisto di quei pregi attribuitigli dalla fantasia di alcuni scrittori». Nel 1870 era ancora intatta l’aura che lo circondava dagli inizi degli anni Trenta di cui aveva parlato Stendhal. Aura che ne aveva fatto un personaggio da leggenda popolare pur se, sottolineava Pesci, la sua principale caratteristica era quella di coprire «con pompose parole molti reati comuni». Reati per i quali, peraltro, non era stato mai processato né condannato.
Fece scalpore la circostanza che, a ridosso della breccia di Porta Pia, una delle prime decisioni del potere politico, dopo che Roma era stata «liberata dal giogo pontificio», fu quella di rimettere in libertà Antonio Gasbarrone, accreditando in quel modo la leggenda che quel brigante fosse stato recluso in quanto nemico di Papi e governi reazionari. All’epoca l’ex bandito era un arzillo settantasettenne e, dopo quarantacinque anni trascorsi in prigione, non era più in grado né di rimettere in piedi la sua banda né di riprendere le attività delittuose. In poco tempo divenne un simbolo dei tempi nuovi: veniva invitato in ambienti altolocati e nelle osterie affinché parlasse delle sue imprese. Lui, già celebre per un libro agiografico che gli era stato dedicato in Francia, raccontava storie sempre più rocambolesche, in gran parte inventate. I ragazzi per strada lo acclamavano educati da lui, riferisce Pesci, a ritenere «onorevole» il «mestiere di brigante», visto come colui che aveva avuto il coraggio di battersi contro i poteri costituiti. Quando il governo si accorse del passo falso e decise di mandarlo a vivere il più possibile lontano da Roma – nella Pia casa di Abbiategrasso (dove sarebbe morto nel 1882 all’età di ottantanove anni) – il danno era fatto. I primi anni di Roma capitale furono dunque vissuti all’insegna del mito di Gasbarrone. Ciò che non giovò alla fama della capitale.
Ma, spiega Enzo Ciconte, se Roma diventò poi la città del malaffare, la colpa non può essere attribuita a quel vecchio brigante inopinatamente rimesso in libertà e divenuto oggetto di venerazione quasi fosse un Garibaldi della Ciociaria. Forse ebbe più importanza un altro episodio già ricordato da Sergio Turone in Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2 (Laterza). Proprio nel settembre del 1870, mentre gli eserciti «si preparavano allo scontro decisivo accampati da entrambi i lati di Porta Pia», a Palazzo Sciarra si tenne una riunione tra personaggi altolocati: «I principi Sciarra, Colonna, Ludovisi, Torlonia, con grossi banchieri di Roma più altri venuti dal Nord e da Napoli, esponenti della finanza vaticana» e il conte Pietro Bastogi, ministro delle Finanze del Regno. Il loro scopo era quello di «programmare e immaginare le sorti immediate e il futuro della città». «Senza che ne avessero titolo», sottolinea Ciconte. La riunione servì per «pianificare le speculazioni future alle quali prese parte la Chiesa con il cardinale belga Francesco Saverio de Mérode». In seguito – probabilmente per effetto dello spavento preso in tutta Europa ai tempi della Comune di Parigi – si scelse, ha scritto Turone, di risparmiare alla capitale del Regno «i fastidi di una popolazione operaia pronta ad accendersi alla prima occasione di tumulto».

Una scelta confermata da Quintino Sella, il quale – come ha ricordato Alberto Caracciolo in Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale (Editori Riuniti) – sostenne che «una soverchia agglomerazione di operai» nella città eterna avrebbe portato a «un vero inconveniente». Roma era destinata a essere il luogo in cui si dovevano «trattare molte questioni che vogliono essere discusse intellettualmente». Ragion per cui non sarebbero stati opportuni «gli impeti popolari di grandi masse di operai». Perché poi, a seguito di tali impeti, gli operai avrebbero scelto di darsi strutture politico sindacali e, specificò Sella, «crederei pericolosa o almeno non conveniente un’organizzazione di questa natura». D’altra parte, però, al Nord il giudizio sugli abitanti della capitale era già di per sé spietato. Vittorio Gorresio – in Roma ieri e oggi (1870-1970) edito da Rizzoli – riportò le parole che lo avevano particolarmente colpito di Vittorio Bersezio, fondatore della «Gazzetta Piemontese» poi parlamentare della Sinistra: i romani sono «il popolo meno laborioso e più odiatore del lavoro di tutta la terra»; degli antichi «di cui si vanta disceso, insieme all’orgoglio personale ha conservato il disprezzo del lavoro, che lasciando agli schiavi ogni opera manuale come indegna di uomini liberi, fece della plebe romana quell’oziosa, tumultuosa, viziosa ciurmaglia che, strumento sempre pronto alla rivolta… applaudiva i Neroni»; in città «il popolano aveva a schifo le arti manuali e preferiva, credendolo più conveniente alla sua dignità di romano, il vivere nel “dolce far niente” coll’elemosina del cardinale, oppure del convento, della parrocchia, dell’elemosiniere papale». 

A ciò si aggiunga, osserva Ciconte, il venire alla luce di un nuovo tipo di malavita di cui le forze dell’ordine capivano assai poco. Annota il presidente del Senato Domenico Farini all’inizio del 1893 nel suo Diario di fine secolo. 1891-95 (Bardi): «Da circa un mese vanno qua e là scoppiando bombe di cemento, avvolte da un filo di ferro, ripiene di una speciale materia esplodente». A fronte delle quali «la polizia dà prova di vera impotenza».
Poi venne la stagione dei grandi scandali. Quello celeberrimo della Banca romana. A cui seguì quello per la costruzione del Palazzo di Giustizia (noto come il «palazzaccio»). E innumerevoli altri. Fino ai primi decenni del Novecento con la vicenda della Banca Italiana di Sconto che chiude l’era prefascista. Fondata nel 1915, la Banca di Sconto a partire dal 1921 vide i suoi depositi svuotarsi perché, racconta Enzo Ciconte, i depositanti ritirarono i loro soldi per cifre sempre più imponenti. Al punto che l’amministratore delegato fu costretto a chiedere al Tribunale di Roma una moratoria. Da quel momento gli amministratori furono sottoposti a un’inchiesta penale con l’accusa di aver «distribuito ai soci, per l’esercizio 1920, dividendi manifestamente insussistenti». Per un ammontare all’epoca enorme di otto milioni di lire (con ciò «diminuendo il capitale sociale della banca»). E, sempre secondo l’accusa, non contenti avrebbero prelevato «dall’attivo della Banca altre somme a loro favore.
Poiché tra gli imputati figuravano quattro senatori, il Senato si costituì in Alta Corte di giustizia presieduta dal generale Vittorio Zupelli, ex ministro della Guerra ai tempi del governo di Antonio Salandra e, successivamente, in quello di Vittorio Emanuele Orlando. Arrivò una sentenza che assolveva tutti con la motivazione che il fatto non costituiva reato. Probabilmente, osserva Ciconte, perché la Banca aveva finanziato l’industria bellica (in particolare l’Ansaldo) e si tenne conto dei cosiddetti «meriti patriottici». Ma a quel punto, oltre ad essere compromessa la reputazione della capitale, l’«infezione» parve essersi estesa anche al resto del Paese.