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 2021  febbraio 16 Martedì calendario

Periscopio

Il presupposto del cambio di passo istituzionale in atto è stato promosso da Matteo Renzi e realizzato da Sergio Mattarella. Domenico Cacopardo. ItaliaOggi.

Il M5s è morto e non siamo stati noi ad ucciderlo. Maria Luisa Faro, M5s. Agenzie.

Lo capisce chiunque che ci hanno trattato come deficienti dandoci questi ministeri. Luigi Jovino, deputato M5s. Agenzie.

Dobbiamo scegliere fra le idee del secolo che è finito nel 1999 e quello che finirà nel 2099. Beppe Grillo, nel suo blog.

Abbiamo un governo di speranziella nazionale. Luigi Amicone. Tempi.

La durata ragionevole del processo è un dovere il cui adempimento compete allo Stato, non all’imputato. Carlo Nordio, ex magistrato. Il Messaggero.

Renata Polverini aveva lasciato il centrodestra per sostenere il governo Conte e probabilmente assicurarsi una futura candidatura nel paventato partito «del 26 per cento» dell’ex presidente del consiglio; e ora non c’è più Conte, figuriamoci il partito di Conte. La Polverini aveva voltato le spalle al berlusca che, in passato, l’ha sottratta più volte all’oblio; e invece ora non solo si ritrova Silvio davanti ma anche Salvini didietro (ed entrambi hanno, per i tradimenti, la memoria del cardinal Mazzarino), entrambi alleati in un esecutivo che la Polverini non avrebbe mai immaginato. Francesco Specchia. Libero.

Grillo ha ripreso in mano il Movimento, e del resto è l’unico che poteva farlo. Il Movimento è morto, un’armata Brancaleone incapace di andare da qualche parte e lui ha capito che l’unica strada possibile per dare senso a una storia politica che non ne avrebbe più è l’ecologia, la green economy. Agganciandosi al treno europeo dei Verdi. E riqualificandosi anche in vista delle prossime elezioni, dove potrebbe avere un suo consenso, un 10-12%, con il quale condizionare la formazione di una nuova maggioranza, di destra o di sinistra non importa. Paolo Becchi, filosofo, uno dei più stretti collaboratori di Casaleggio senior. Alessandra Ricciardi. ItaliaOggi.

«Andiamo a salutare lo Zio Silvio!», urla un fotografo buttandosi giù per le scalette di via della Missione, mezzo ironico e mezzo sincero, con quel po’ di nostalgia canaglia per i tempi in cui Silvio Berlusconi faceva tutto in grande, politica opere e peccati, anche se poi, in effetti, eccolo che ancora arriva dentro un corteo da sultano, il pulmino blindato in coda a cinque macchine, la sua che si infila subito nel garage. Ma subito dopo lo Zio Silvio è già ritornato qui fermo sul portone, con le capogruppo di Fi Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini alle spalle, le sue spalle ormai un po’ curve dentro il solito magnifico doppiopetto blu di Caraceni. Si scatena un mischione. «Presidente, è un piacere vederla!». «Grande!». «Bella Silvio!». Microfoni nell’aria, le luci delle telecamere accese. Lui se la gusta tutta questa scena antica, d’un tempo andato, s’abbassa pure la mascherina anche se non dovrebbe, e così tutti notiamo le rughe belle dell’età che nemmeno un dito di cerone riescono più a nascondere. Ma va bene così, gli anni passano per tutti e anche per Berlusconi, che è voluto venire in volo privato dalla Provenza, che dopo aver dato la linea al suo partito adesso con Draghi vuole parlare personalmente, nonostante appena quattro giorni fa i medici siano stati perentori dicendogli: no, presidente, il suo cuore ogni tanto saltella e lei, a Montecitorio, non ci va. Fabrizio Roncone. Corsera.

Giuseppe Conte dovrebbe sapere che, da casa, non lo si guarda più con la stupefazione di sei mesi fa, quando, smarriti, galleggiavamo in un film di fantascienza, ci consolavano cantando dalle finestre o applaudendo all’ora prestabilita medici o infermieri. Conte dovrebbe sapere che i suoi modi di seta, morbidi e leggeri, furono incantevoli ma non incantano più e la leggerezza è ormai la misura del suo spessore. Quello che ha raccontato l’ultimo Rapporto Censis è il ritratto di un’Italia incattivita che guarda Conte da casa e comincia a puntare l’indice. Marcello Veneziani. LaVerità.

Col trascorrere dei mesi, avanzava la certezza del disastro preconizzato sul Paese governato da un premier vanesio ed evanescente come Giuseppi, il quale, ancora offeso per il mancato invito alla cerimonia di addio alla Bce (dove peraltro per protocollo era previsto solo Sergio Mattarella), non rispondeva a Draghi neppure al telefono. A un certo punto le bozze italiane del Recovery Plan che giravano in Europa hanno lanciato l’allarme rosso. Da Macron fino a Ursula Gertrud von der Leyen segnalavano che l’Italia era andata fuori controllo e che l’Europa tutta ne avrebbe patito le conseguenze. Draghi l’aveva ripetuto a ciascuno dei suoi interlocutori, da Di Maio a Salvini, da D’Alema a Zingaretti. «Solo se la situazione precipita e con una larga maggioranza sarei disponibile»: questo suo diktat Sergio Mattarella, che ha difeso Conte oltre ogni ragionevole dubbio, conosceva perfettamente le cose. Poi, il grido d’allarme dell’Europa, l’ultimo drammatico messaggio della Merkel direttamente al Quirinale e la vergognosa campagna acquisti di Casalino-Travaglio sui c.d. costruttori hanno fatto il resto. Luigi Bisignani. Il Tempo.

Mai che nel calendario ci sia da commemorare qualcosa che inorgoglisca, come una vittoria militare contro un nemico implacabile. Un tempo, si festeggiava il 4 novembre del 1918. Si chiamava Anniversario della Vittoria, era un giorno di vacanza, ci ricordava il compimento dell’Unità e la riconquista delle terre irredente, come erano dette Trento e Trieste che dall’Austria tornavano a noi. Scomparso tutto. Il 4 novembre è un giorno qualsiasi e fare festa sarebbe contro lo spirito Ue. Anzi, se si potesse, quella guerra andrebbe cancellata. Giancarlo Perna. LaVerità.

Quando suo papà era presidente del Consiglio io gli facevo da assistente, sia pure senza stipendio. Ricordo il viaggio negli Usa. Il presidente Truman era cordiale, alla mano; ma il viaggio fu molto difficile, e non solo per la tempesta che funestò il volo. Gli americani continuavano a farci incontrare gente, il mattino gli industriali, il pomeriggio i capi dei ferrovieri, ma di aiuti non parlavano mai; e l’Italia era letteralmente alla fame. La penultima sera papà mi disse: «Qui partiamo a mani vuote». Il giorno dopo ci diedero il famoso assegno. Maria Romana De Gasperi (Aldo Cazzullo). Corsera.

Fra un secolo, sulla mia tomba leggerete: «Qui giace Roberto Gervaso: scusate il ritardo». Roberto Gervaso.