La Lettura, 14 febbraio 2021
QQAN30 Il mondo di Piero Pelù
QQAN30
«Il primissimo Pelù era arrivato sulle Apuane nei primi dell’Ottocento a seguito della campagna d’Italia di Napoleone, ma decise di disertare e di insediarsi nell’alta Garfagnana per poi scendere verso la costa, a Massa, e aprire una piccola cava di ferro sulle Alpi Apuane (il metallo in tutte le sue forme e anime sarà sempre presente nel mondo di P)».
P è Piero Pelù, e questo libro finalmente lo racconta per intero. Artista al contempo esplicito e sfuggente, sulfureo e romantico, duro e dolcissimo, maledetto e seduttore, capace di comporre musiche sperimentali e di animare un talent popolare, Pelù ha passato l’anno del lockdown a scrivere la sua autobiografia sotto forma di romanzo: Spacca l’infinito, che Giunti manda in questi giorni in libreria.
E siccome in ogni famiglia italiana ci sono storie di contrasti e contraddizioni, subito si scopre che un cantautore di sinistra ha avuto un nonno fascista, rapito dai partigiani, e un prozio «martire della rivoluzione fascista», come si diceva al tempo del regime.
È il 1921, l’Italia è uscita a pezzi dalla Grande guerra, dalla pandemia di spagnola, dal biennio rosso, dal «terrore che la rivoluzione russa dell’ottobre 1917 si espandesse anche da noi con i conseguenti assalti ed espropriazioni di proprietà private e beni ecclesiastici», come scrive Pelù in bilico tra la tragedia e l’ironia. «Con queste idee, e anche per menare le mani, Paolo», il fratello di nonno Pietro, si era unito ai «cinquecento uomini che avevano deciso di raggiungere Sarzana e liberare il gruppo di squadristi detenuti nella Fortezza Firmafede insieme a Renato Ricci, fondatore del Fascio di combattimento di Sarzana».
I carabinieri sparano, si contano 10 morti, la camicie nere fuggono, si disperdono nelle campagne dove trovano ad attenderle «i forconi e le vanghe dei contadini incazzati». In tre vengono trucidati a colpi di vanga e piccone e gettati in un fosso: tra loro c’è Paolo Pelù. Suo fratello Pietro «era diventato fascista solo per quello, a Massa lo sapevano e lo capivano tutti».
Il conto arriva una mattina del 1944. Pietro ora è padre, ha quattro figliuoli, il primogenito si chiama Giovanni e ha 17 anni. La famiglia si è nascosta sulle Apuane, «lungo quella maledetta Linea gotica che partiva dal fosso del Cinquale e arrivava fino a Rimini attraversando tutto l’Appennino».
Arrivano due partigiani e portano via Pietro, sotto lo sguardo della madre. Giovanni Pelù – il primogenito, il papà di Piero – va a cercare il padre sulle montagne, a rischio della sua stessa vita. Un antifascista cattolico di Massa, compagno di scuola di nonno Pietro, salì sulle Apuane e disse ai partigiani solo la verità: «Che cazzo fate? Questo qui c’ha quattro figlioli, è diventato fascista solo perché gli hanno ammazzato il fratello a Sarzana, lo sapete tutti. Lasciatelo andare subito!». Segue trattativa e liberazione, con un monito: «Levati dalle palle perché ti facciamo secco la prossima volta che ti troviamo in giro per strada». Ma nel frattempo è stato trovato in un lago di sangue il corpo di un ragazzo che somiglia molto a Giovanni… Non è lui, ma per decenni il padre di Piero «continuerà ad andare sulle Apuane alla tomba di quel ragazzo che non era lui e con il quale, non saprà mai dire bene il perché, si sentirà per sempre in debito».
L’altro nonno di Piero, Mario, il padre della mamma, ha fatto la Grande guerra. «Era un ragazzo del ’99: e a diciotto anni lo misero su un treno alla stazione di Massa per spedirlo sulle Ardenne a combattere in trincea in mezzo all’inferno. Proprio lì Mario trovò un coetaneo romano, un nuovo arrivato che suonava il flauto», proprio come suo padre, il bisnonno di Piero, musicista nell’orchestra del Teatro Guglielmi di Massa.
«Un giorno, in una pausa fra i vari attacchi, il suo amico stava suonando una musichetta, una cosa da niente, un motivetto spensierato giusto per stare allegri. In un batter d’occhio tutti videro il suo cervello che schizzava per aria. Non fecero nemmeno in tempo a capire da dove fosse arrivato il colpo del cecchino. Morì tra le braccia di Mario».
Il nonno di Piero fu rimpatriato soltanto dopo la scomparsa del fratello Nino, ucciso dalla spagnola. «Tornò a casa con quel dolore piantato dentro e in tasca i tre pacchetti di Gauloises che fumava ogni giorno». Morirà per un tumore al polmone, non senza aver lasciato a Piero e a suo fratello Andrea una lezione. I due bambini stavano giocando a puntarsi addosso «i fucilini finti, coi tappi», quando il nonno li rimproverò: «Le armi non si puntano in faccia nemmeno se sono dei giocattoli! Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza!».
Quel rimprovero e quella citazione dantesca furono decisive: «Nonno Mario non lo sapeva, ma aveva appena fatto nascere un pacifista convinto e futuro obiettore di coscienza», annota Pelù (quanto a suo fratello Andrea, si è laureato in economia ed è il suo manager). Il mio nome è mai più, cantata con Ligabue e Jovanotti, diventerà l’inno contro la guerra del Kosovo.
Ovviamente questo bellissimo Spacca l’infinito racconta molte altre storie. La formazione di un figlio dei primi anni Sessanta: l’alluvione di Firenze con il rischio di finire sott’acqua, i sedili in finta pelle della Fiat di papà che uniti alle curve dell’Appennino fanno vomitare in senso tecnico, le corse con la biciclettina tra le macchine, Sandokan e Tremal Naik, «Topolino» e il «Corriere dei Piccoli», il primo viaggio a Parigi in treno a 10 anni, le fiabe sonore dei Fratelli Fabbri Editori e le F iabe italiane di Italo Calvino, «racconti fantastici che a volte erano anche molto trucidi e dark».
Il liceo: «Ulisse, Dante, Leopardi, Montale, Ungaretti, Bach, per non parlare di seno e coseno, ma alla fine ho capito che Itaca, Beatrice, il pastore errante dell’Asia, gli ossi di seppia, d’autunno le foglie, la Toccata e fuga in re minore e la trigonometria sono un po’ tutti la stessa cosa: attaccamento e amore per la vita raccontato da punti di vista, da esperienze profonde, da viaggi mentali totalmente diversi e solo apparentemente disconnessi». Il negozio di strumenti in via dei Servi, tra il Conservatorio e l’Accademia con il David di Michelangelo, sfondo ideale della storia di un ribelle che non ha mai tagliato le radici con la musica classica, la letteratura, l’arte e la sua città; non a caso il suo primo gruppo musicale si chiamava Mugnions, dal Mugnone, il torrente sotto casa.
E poi i Litfiba, il concerto fiorentino di Patti Smith del 1979, gli amici tentati dalla droga, la tragica morte di Ringo. L’insonnia cronica, rotta da sogni di musica con melodie e parole che però si perdono al risveglio. L’amore per Gianna (sposata l’anno scorso) come un presagio ricorrente; i sentimenti forti per le tre figlie nate da altre unioni; il nipotino cui è dedicata la canzone di Sanremo 2020, dalla quale è tratto il verso che dà il titolo al libro. Perché, come dice Piero al bambino che è stato, «se mi fossi dimenticato di te non sarei stato felice nemmeno un minuto».