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 2021  febbraio 14 Domenica calendario

Onetti, anzi O’Nety

Il 30 ottobre del 1980, un giovedì, verso le cinque e cinque di pomeriggio, l’ora in cui le persone libere fanno quello che desiderano, un giovane studente che sta scrivendo un romanzo che ha come protagonista un giovane studente entra in una libreria. Si aggira per gli scaffali, sfoglia, tocca, annusa, finché, attratto dalla chiassosa combinazione del suo titolo con l’immagine della copertina, prende in mano un libro e si mette a leggere la frase di quarta: «Un giovane studente sta scrivendo un romanzo intorno a un personaggio che sta scrivendo un altro romanzo, i personaggi del quale si ribellano e scrivono per conto loro un altro romanzo, che ha per protagonista il loro autore». 
Torna a osservare la copertina con i cappelli dipinti da Max Ernst, quel titolo che lo ha così irresistibilmente attratto, Una pinta d’inchiostro irlandese, il nome dell’autore, Flann O’Brien, a lui completamente sconosciuto malgrado sia reputato un grande lettore e infatti i suoi amici gli chiedono sempre consiglio su cosa leggere e lui li stupisce consigliando loro autori meravigliosi dei quali essi, gli amici, non hanno mai inteso parlare. Ora però tocca a lui meravigliarsi, mentre legge il risvolto di copertina: quel libro è suo. Getta un’occhiata al prezzo: bassissimo, 2.500 lire. Eppure è nuovo, eppure è un Supercorallo Einaudi. Se non è un errore il giovane studente può permettersi di comprarlo. Ma è un errore per forza, quei libri costano perlomeno il quadruplo: quello riportato sulla copertina dev’essere ancora il prezzo originale, di quando il libro è stato pubblicato, 12 anni fa, mai aggiornato per una svista dei commessi. Il ragazzo porta il libro alla cassa, lo consegna al commesso. Non sto facendo nulla di male, pensa. Il commesso batte il prezzo sul registratore di cassa: 2.500 lire. Il ragazzo paga, il commesso gli consegna il libro.
Il suo pensiero, nell’atto di uscire dalla libreria, impaziente di sedersi sul sedile del treno locale che lo riporterà a casa e di cominciare a leggerlo, va a Pirandello, ai Sei personaggi in cerca d’autore, studiato al liceo due anni prima – anzi, non studiato, bensì, come è usanza al liceo, il suo esatto contrario: aggirato, eluso, evitato, non letto, e nemmeno visto quando era stato rappresentato nel teatro della sua città, ma semplicemente rimasticato sugli appunti presi in classe, quel tanto che bastava per svoltare la sufficienza all’interrogazione.
Tanta è l’attrazione che il giovane studente adesso prova per il libro appena comprato che una parte di essa tracima su quel testo e su quell’autore da lui, in quanto imposto, sdegnosamente trascurato, e che invece avrebbe meritato – meriterebbe – maggiore attenzione. Certo, Luigi Pirandello non è irlandese come tutti i suoi autori preferiti, tra i quali lo sconosciuto appena acquistato sta già trovando posto, ma non è detto che un giovane lettore italiano non debba trovare appagante la tradizione italiana solo perché per anni gliel’hanno propinata a scuola. Il ragazzo non lo sa, ma quell’incontro casuale con il capolavoro di Flann O’Brien segna per lui la data di una duplice scoperta, che avrà un certo peso nel suo futuro: quella, appunto, dell’importanza della sua tradizione letteraria e quella della metaletteratura. O forse in qualche misterioso modo lo sa, perché sul treno, aperto il libro, prima di cominciare a leggerlo, fa una cosa che non ha mai fatto prima: sul frontespizio quella data lui la scrive a pennarello: 30 ottobre – per l’appunto – 1980.

Le date sono importanti. Sei personaggi in cerca d’autore è del 1921. Una pinta d’inchiostro irlandese (titolo originale At Swim-Two-Birds) è del 1939. E già che ci siamo portiamoci avanti, perché il discorso passerà necessariamente di lì: Mentre morivo di William Faulkner è del 1930 e La nausea di Jean-Paul Sartre del 1938. Teniamole a mente, le date. Sono importanti.

La vita breve è il capolavoro di Juan Carlos Onetti, ed è del 1950. Si tratta di un’opera poco decifrabile, stilisticamente perfetta, e rappresenta secondo tutti i critici l’esordio della cosiddetta modernità nella letteratura latinoamericana – intendendo per modernità, in forza di un’equazione tutt’affatto discutibile che però per pigrizia ormai prendiamo per buona, lo sperimentalismo. Non racconta una storia, piuttosto si perde nelle storie che racconta per il tramite di Brausen, voce narrante e, per così dire, manifesto poetico in forma di protagonista, che persegue fin dalle prime pagine lo scopo di dissolversi nei personaggi creati dalla sua immaginazione. 
Come in tutta la letteratura sperimentale, la trama non è che un pretesto per strapazzare i personaggi, ucciderli, tradirli, trasformarli gli uni negli altri e tutti quanti in lingua; essa è perciò mutuata dalla narrativa di genere – gialla, hard boiled, pulp — poiché essa meglio si presta, con le proprie bolle di violenza e di abiezione, a dar vita a personaggi poco amabili, e dunque sacrificabili sull’altare dell’ingrediente fondamentale nelle avanguardie, il nichilismo. In un romanzo cioè nel quale, per quel che contano gli accadimenti agli occhi del suo autore, potrebbe tranquillamente non accadere nulla, la trama di genere fa succedere un sacco di cose emozionanti: ci sono crimini, fughe, droghe, sesso, botte, quattrini, ambiguità.
È tutto vano, ovviamente, perché quel che conta è appunto il dissolversi di Onetti in Brausen (perché Onetti stesso compare nel romanzo, nei panni del proprietario dell’appartamento di Brausen), e quello di Brausen nel dottor Díaz Grey e in Arce, e di Buenos Aires in Montevideo, e nella Parigi di prima, e nella Santa María di poi, la città inventata dove quasi tutto ciò che Onetti ha scritto viene presto o tardi risucchiato, come fosse il buco del lavandino. La vita breve è un continuo, geniale trascolorare di una forma nell’altra, un algoritmico contrappunto di voci che compongono il silenzio perfetto, una sarabanda di movimenti, forze, gesti, la cui somma finale è zero – quell’entusiasmante trascinar di piedi «più per la felicità che per la stanchezza» con cui si chiude il libro, così simile al «filo d’inchiostro» nel quale si trasformano i rami e le foglie di Ombrosa alla fine del Barone rampante, quando all’improvviso si dubita che Ombrosa sia mai esistita, o alla commovente maledizione della salvezza con la quale Malcolm Lowry si stacca da Ultramarina: «Oh, Janet, non c’è dolore così brutto come quello che passa e non c’è più»...

Onetti. Cognome italiano. In Italia, secondo Cognomix.it – Mappa dei cognomi italiani, ci sono 42 famiglie Onetti, metà delle quali in Lombardia – e un terzo di quella metà, cioè sette, nell’imperscrutabile provincia di Sondrio. 
Che Juan Carlos Onetti sia il contributo più importante dato all’umanità da questa città umile e industriosa che comunque ha dato i natali a Gianni Celati?
Dalla Lombardia sono emigrati a sciami, nell’Ottocento, chi per l’America del Sud, chi per l’America del Nord, come Carlo Ferlinghetti da Brescia, approdato sui registri di Ellis Island il 20 ottobre del 1894, a 22 anni, con le pezze al culo ma con uno straordinario colpo in canna, messo a segno 24 anni dopo, cioè a 46, quando, mischiando i propri geni con quelli di Lyons Albertine Mendes-Monsanto, ebrea sefardita di origini francesi e portoghesi, concepisce uno dei più grandi poeti americani del tempo moderno, Lawrence Lorenzo Ferlinghetti, appunto – e dando in questo modo posterità nel nuovo mondo a un cognome che, sempre secondo il suddetto Cognomix.it, in Italia oggi non esiste più. Che l’origine di Onetti sia simile? Genova. Bastimento. Montevideo. Cartolina postale. «Cara mama, sono ariuato»... E qui c’è la sorpresa. Bastimento sì, padre no: trisnonno. Ma soprattutto, Genova no: Dublino. Irlanda! Onetti è la traslitterazione italiana di O’Nety, decisa dal nonno di Juan Carlos, forse per semplificarsi la vita in mezzo a tutti gli italiani che erano approdati in Uruguay verso la metà dell’Ottocento, appresso a Garibaldi.

Onetti, un irlandese. Quando ha saputo questo, il ragazzo non era più studente, ma era ancora giovane. Amava ancora gli scrittori irlandesi ma il suo orizzonte si era ampliato. Aveva recuperato il gusto di leggere gli autori della tradizione italiana, e aveva conosciuto le opere di Juan Carlos Onetti grazie allo scroscio di autori latinoamericani dal quale frattanto era stato travolto: Mario Vargas Llosa, innanzitutto, e poi García Márquez, Borges, Carpentier, Cortázar, Onetti, appunto, Cabrera Infante, Bioy Casares, Lezama Lima, Ernesto Sabato, e Asturias, Arguedas, Octavio Paz...
Aveva sviluppato una particolare ammirazione proprio per Onetti, il più imperscrutabile del gruppo, quello dalla gloria opaca. Senza ancora sapere – ripetiamolo – delle sue ascendenze irlandesi, aveva sposato la definizione che qualcuno un po’ spericolatamente ne aveva dato, di Joyce del Sudamerica — dimenticandone, ahimè, il nome. 
Aveva imparato proprio da Onetti e dagli altri fuoriclasse latinoamericani che si può anche non capire proprio tutto, di una storia, che una certa percentuale di senso compiuto poteva essere sacrificata in nome della libertà espressiva, e nello stesso momento aveva imparato che nel romanzo si può fare tutto, che non era solo prerogativa di Joyce, appunto, che certe libertà se le è inventate; aveva imparato che tutte le libertà possibili erano e sempre saranno a disposizione di un romanziere – bastava avere il coraggio di concepirle, e poi di prendersele: cambiare tempi e persona di narrazione all’interno dello stesso libro, dello stesso capitolo, della stessa frase, cambiare voce narrante, far parlare i morti, gli alberi, gli oggetti, trasformare un personaggio in un altro, fonderli insieme, scrivere senza punteggiatura, senza virgole, senza punti, senza usare la lettera e — tutto era possibile nel romanzo.
Onetti è uno dei più assetati di libertà, anche se con le sue storie va sempre a infognarsi in situazioni più o meno senza uscita, e questa sua sete di libertà, compositiva, linguistica, narrativa, si traduce in quelle pagine terse, appassionanti e spesso prive di senso di cui La vita breve è pieno. Imparò tutto questo, il ragazzo non più studente, e lesse, si documentò: Onetti non era il suo preferito, non avrebbe mai potuto esserlo con Mario Vargas Llosa in circolazione, ma sembrava veramente che fosse il punto di sutura tra l’Europa e l’America, e non solo l’America Latina, anche quella del Nord. Seppe tutto quello che c’era da sapere di Onetti, lo seppe e lo approvò (non era più studente, è vero, ma era pur sempre ancora giovane, e quindi anche arrogante e presuntuoso).
Seppe che leggere La vita breve, o Il pozzo, o Il cantiere, o Gli addii, o Raccattacadaveri, o Triste come lei, o Lasciamo che parli il vento, era come camminare in equilibrio su una fune che andava da Faulkner a Sartre, strapiombante sul vuoto. Faulkner per le asperità linguistiche, per i monologhi ritorti, per la celebrazione della geografia fittizia sovrapposta a quella vera (la contea di Yoknapatawpha, la città di Santa María); e Sartre per il timbro esistenzialista di ogni singola posa di ogni singolo personaggio ritratto in ogni singola pagina dei suoi libri – per il nichilismo, il pessimismo, l’anarchia.
Un moto, quello che va da Faulkner a Sartre, che è stato associato a Onetti fin da subito, quando per campare faceva il giornalista, andava e veniva da Buenos Aires a Montevideo, e i suoi libri non avevano nessun successo; ed è proseguito anche quando, pur continuando a non dargli di che vivere, la sua influenza su tutta la letteratura latinoamericana ha cominciato a fruttargli perlomeno delle menzioni; ed è continuato per tutti gli anni Sessanta, si è ulteriormente rafforzato negli anni Settanta, con la giunta militare fascista che lo ha messo in galera nel 1974 e la fuga a Madrid l’anno seguente; e lo ha seguito negli anni della vecchiaia, col Premio Cervantes – finalmente un riconoscimento prestigioso, nel 1980, degno della sua grandezza – e la vita monacale condotta fino alla morte, avvenuta nel 1994, a 85 anni, per problemi epatici. 
Onetti: Faulkner e Sartre. Nessun dubbio che il segmento sia tra questi due – tra l’altro, due premi Nobel. E c’è una perla, oggi, con la possibilità di consultare documenti aumentata esponenzialmente grazie al web, che lo conferma definitivamente. Si tratta di immagini, di fotografie. Le foto di Onetti che conosciamo lo ritraggono dai quarant’anni in su, calvo, con gli occhiali dalla montatura nera, e una certa somiglianza, sì, con Jean-Paul Sartre da vecchio, soprattutto per via del labbro pendulo e dello strabismo divergente – l’uno più pronunciato in Onetti, l’altro in Sartre, ma presenti in entrambi. Ma le foto che ora si riescono a recuperare di Onetti giovane, negli anni Trenta, sono sorprendenti, perché lì siamo di fronte a tutt’altre sembianze, e la somiglianza, abbastanza lampante, è, be’, con William Faulkner da giovane: baffetto, fronte alta e spaziosa, viso aperto al mondo, folti capelli neri pettinati all’indietro... Ecco, è in questo impianto così ferreo da sembrare davvero ineluttabile che il giovane non più studente ma ancora giovane, quando ha saputo delle vere origini di Juan Carlos O’Nety, ha introdotto quella che possiamo chiamare la variante irlandese: e il risultato è interessante, perché è una via di fuga, e a Onetti piacevano molto le vie di fuga. Una via di fuga dal destino di padrino occulto della letteratura sudamericana, messo a cuocere in un brodo di premi Nobel solo per vedere gli altri coprirsi di gloria mentre lo ringraziano per il suo magistero (Onetti non l’ha vinto, il Nobel: il Pen Club Español ha reso noto di averlo candidato, nel 1981, ma a lui non è stato assegnato). Una via di fuga dal ruolo di ponte tra l’Europa e l’America, lui a sopportare, a resistere, e gli altri a percorrerlo. Una via di fuga perfino da sé stesso, dai suoi demoni e dalle sue ossessioni. 
E se questa pinta di sangue irlandese nelle sue vene permettesse di volgersi verso un maestro molto più occulto di lui, e in tutto e per tutto meno fortunato di lui? E se O’Nety, pur con tutta la disperazione trasportata dai suoi libri, fosse la mutazione fortunata di un autore, lui sì, veramente nascosto e maledetto, per imbattersi nel quale bisogna proprio trovarselo davanti per caso, un pomeriggio, senza che nessuno degli scrittori contemporanei che si leggono e si ascoltano dica di lui che è stato il suo maestro?

Flann O’Brien ha vissuto una tripla vita, ed è morto giovane. La metaletteratura, per lui, era autobiografia. Il suo vero nome era Brian O’Nolan, e con quel nome svolgeva le mansioni di funzionario governativo della Repubblica d’Irlanda. Come Flann O’Brien è stato appunto l’autore geniale e misconosciuto di capolavori come Una pinta d’inchiostro irlandese o Il terzo poliziotto (libro quest’ultimo che ha conosciuto il curioso destino di diventare popolare per qualche mese, nel 2005, per essere comparso in una puntata della serie televisiva Lost, vendendo in quel poco tempo molte più copie di quante ne avesse vendute fin lì dall’anno della sua uscita, nel 1967, postumo, dopo essere stato rifiutato e addirittura perduto mentre il suo autore era in vita). E con il nome di Myles na g Copaleen è stato giornalista e attivista in lingua gaelica, autore di una rubrica satirica sull’«Irish Times» e del romanzo intitolato An Béal Bocht, in Italia uscito come La miseria in bocca.
È morto giovane, a 55 anni, per i numerosi tumulti provocati sulla sua carcassa dalle sue leggendarie gesta di bevitore. Nessuno si è mai avvicinato più di lui a essere, in vita, un personaggio di Onetti. Il suo sangue irlandese, purissimo, mai trapiantato in altri mondi o tagliato con altri geni, oltre all’alcolismo gli ha consegnato una vena di esilarante comicità, che pulsa in ogni scena dei suoi libri – coprendo la disperazione, le amarezze i fallimenti e le contorte ribellioni politiche che, mentre oscillava fra le sue tre diverse identità, lo hanno accompagnato nel suo passaggio su questa terra. Ma sotto quella vena comica si trova la mercanzia che Onetti sempre propone e tira a lucido: la complessità faulkneriana (anzi, joyciana), la pioggia esistenzialista, il cinema non ancora inventato della Nouvelle Vague, il non capire perché... 
Sembra un prototipo, O’Brien, di Onetti, sembra stare a lui come quelle meravigliose macchine volanti immaginate da Leonardo stanno all’aeroplano. La modernità li divide e li vede schierarsi su due opposte trincee: quella dell’Irlanda rurale O’Brien, sempre più povera e assediata, affamata e sghignazzante, dalla quale il trisavolo di Onetti era fuggito, e quella dei caffè metropolitani Onetti, pieni di fumo e di donne che si rifanno il trucco, e artisti, perversione, modernità, decadenza. Ma il sangue che scorre nell’uno scorre anche nell’altro, e davvero i due possono essere apparentati per il tramite dei loro personaggi, che si prendono la libertà di ribellarsi al proprio autore e vivere di vita propria. (Riecco, per inciso, Pirandello). Al punto che, spericolatamente come quel tale che ha accostato Onetti a Joyce, si può addirittura affermare che i personaggi di Onetti e quelli di O’Brien si parlino, che addirittura si soccorrano. Per esempio: la triplice fine aperta della Vita breve, con Brausen, Arce e Díaz Grey che a libro finito rimangono lì, appesi a un destino sempre più segnato, a centellinarsi il millimetro quadrato di ossigeno che è loro rimasto da respirare, che trova sollievo nel triplice addio alla fine di Una pinta d’inchiostro irlandese.

Brausen è una parola tedesca, significa «ruggito». Il giovane studente, non più studente e da un bel pezzo ormai nemmeno più giovane, ricorda a memoria il finale di Una pinta d’inchiostro irlandese e non ha bisogno di andare a rileggerla: «Fin troppo noto, ahimè, è il caso di quel povero tedesco innamorato del tre, il quale riduceva ogni aspetto della sua vita a una questione di triadi. Una sera tornò a casa, bevve tre tazze di tè con tre zollette di zucchero per tazza, si tagliò la giugulare tre volte con un rasoio e con mano morente scarabocchiò sulla fotografia della moglie addio, addio, addio».

Uno dei libri più belli di Onetti, una novella, s’intitola Gli addii (1954).

Come Ferlinghetti in Italia, O’Nety non figura più nelle mappe dei cognomi d’Irlanda.