La Lettura, 14 febbraio 2021
12QQAFA10 Intervista a David Leavitt
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David Leavitt era «un ragazzo di ventitré anni con un bel viso timido, grossi occhiali su occhi brucianti e cerchiati, capelli corti, maglioncino da studente». Così nel luglio 1985 lo ritraeva Fernanda Pivano sul «Corriere della Sera». Negli Stati Uniti era appena uscita una raccolta di racconti intitolata Family Dancing e l e era bastata per capire che quel narratore esordiente, che parlava di famiglia e di gay nell’America reaganiana, si sarebbe affermato come «uno dei capilista» della sua generazione. «Lo diventerebbe anche se non pubblicasse altro dopo questa drammatica serie di nove racconti slegati l’uno dall’altro ma profondamente connessi tra loro dallo stile, dal taglio, dalle atmosfere, dalla scelta dei temi», continuava l’americanista. Ora quella raccolta, Ballo di famiglia, tradotta in italiano nel 1986 da Delfina Vezzoli per Mondadori, torna con la nuova traduzione di Fabio Cremonesi, con un racconto extra dedicato alla madre e una prefazione dello scrittore.
Quella galleria di famiglie legate dalle stesse normali situazioni di separazione, malattie, divorzi, incomprensioni hanno, a distanza di 35 anni, la stessa freschezza, la stessa urgenza di allora. «Eppure mi sembra un periodo così lontano», dice Leavitt a «la Lettura», al telefono dalla sua casa in Florida, mentre il cane Toby abbaia per attirare la sua attenzione. «Avevo 23 anni, ora ne ho 59, avevo così poca esperienza del mondo, così poca memoria, c’era ancora così tanto spazio nella mia mente. Ora devo combattere con quasi il triplo di ricordi. A volte mi chiedono perché scrivo più lentamente. Perché sono come un computer di dieci anni fa, troppo pieno».
Nell’86 quando presentò il libro a Milano, venne accolto come una star. Che aspettative aveva?
«Non avevo nemmeno iniziato a pensare che quella di scrittore potesse essere una carriera per me. Ero come Alice nel paese delle meraviglie. Avevo fatto il mio primo viaggio in Italia, molto glamour e eccitante, ma anche un poco surreale. Scrivere racconti era stato un gesto quasi istintivo, lo facevo da quando ero ragazzo. A Yale avevo frequentato qualche workshop di scrittura e avevo cominciato a prenderlo più sul serio. Ma il mio obiettivo era fare il dottorato e insegnare»
Cosa che adesso fa.
«Mah, sono una sorta di falso professore perché il dottorato alla fine non l’ho preso. Comunque era un tempo più innocente, sopratutto se paragonato al momento che stiamo vivendo, così difficile per tutti».
Eppure i racconti sembrano ancora attuali, soprattutto in Italia, dove i movimenti civili, per esempio riguardo alle coppie gay, sono arrivati molto dopo rispetto agli Stati Uniti.
«Mi fa piacere, lo prendo come un segno di buona scrittura, significa che non è un prodotto del tempo. È quello che provo quando leggo le storie dei miei autori preferiti, come John Cheever che scriveva soprattutto degli anni Quaranta e Cinquanta. O come quando vedo film di quel periodo: alcuni sono fatti per quel preciso tempo, altri per il futuro. Casablanca, per esempio, è ancora attuale, mentre altri film con Humphrey Bogart non lo sono. A dire il vero rileggendo i racconti, cosa che di solito non faccio, qualcosa di datato trovo, soprattutto certi termini. Per esempio ora non userei mai la parola omosessuale».
All’attualità di «Ballo di famiglia» contribuisce forse il fatto che se le famiglie cambiano, le dinamiche legate ai rapporti sono sempre le stesse.
«Io scrivevo e basta, ero troppo giovane per pensare a chi mi stessi rivolgendo o se la storia sarebbe durata. Una delle cose per cui mi piace insegnare è che c’è una forma di libertà nei lavori dei miei allievi. Per me era lo stesso, quello di cui scrivevo era la mia esperienza di vita. Ho vissuto con la mia famiglia finché non sono andato all’università e ho cominciato a comporre questi racconti probabilmente al secondo anno. Avevo pochissima esperienza al di fuori di quello ma, allo stesso tempo, la famiglia era un soggetto così ricco. Se penso alla mia formazione, ai libri che leggevo quando ero uno studente, tutti avevano a che fare con quello: E. M. Forster, Virginia Woolf. E gli scrittori gay non scrivevano della loro famiglia, piuttosto delle loro esperienze urbane».
Al centro di quasi tutti i racconti ci sono spesso le madri, figure anche molto diverse tra loro, sempre colte nei loro rapporti con i figli.
«Sono tutte mie madri in un certo senso. Era una donna molto forte, molto presente nella mia vita. Morì quando avevo 25 anni: è in tutto ciò che scrivo».
In Italia è stato «scoperto» da Fernanda Pivano. Che ricordo ha?
«Non la conoscevo benissimo. Mi intimidiva, aveva rapporti con così tanti scrittori americani importanti. Devo dire che non mi fidavo completamente di lei, mi aveva fatto un’intervista in cui mi aveva chiesto cosa c’era di nuovo in America. Gli avevo risposto: c’è internet, perché eravamo agli inizi di quelle chat di incontri gay. Quando l’intervista uscì, il titolo era Leavitt, sesso sicuro con il computer. Mi imbarazzai anche se poi ho realizzato che probabilmente non era colpa sua, perché il titolo non lo aveva fatto lei».
L’hanno spesso paragonata a un altro scrittore americano, Jay McInerney.
«L’ho incontrato soltanto due volte, sempre in Italia. Una volta a cena con Fernanda Pivano e Francesco Durante. Ebbi la sensazione che a lei lui piacesse più di me. Forse perché amava il vino, se ne intendeva, e io sono astemio. Tra l’altro molte potenziali relazioni che avrei potuto avere con altri scrittori sono state rovinate dal fatto che non bevo. Lo stesso è successo con la grande scrittrice inglese Sybille Bedford. Quando la incontrai aveva circa ottant’anni e aveva una selezione di bottiglie pregiate. Io le dissi: no, mi dispiace non bevo. Questo ci ha rovinato. Ero così giovane, così naif, non sapevo che a volte è meglio fingere. Ma non ero molto sicuro di me, non sapevo come comportarmi».
Romanzi, racconti, novelle. Lei spazia in tutti i generi.
«Il romanzo è più interessante come esperienza, perché permette un rapporto più intenso e duraturo con i personaggi ma non è vero che i racconti siano meno interessanti per gli editori. Io sto aspettando il prossimo scrittore che con questo genere faccia qualcosa di nuovo perché, per citare Amy Hempel, i racconti rendono possibili altri racconti. Ora ci sono molti romanzi vibranti, interessanti, che espandono l’idea stessa di romanzo. Penso soprattutto alla mia scrittrice preferita del momento, Rachel Cusk. Tra l’altro ieri ho partecipato alla festa Zoom per il suo compleanno, un’esperienza davvero surreale».
Con l’Italia c’è un rapporto di amore.
«È la mia seconda patria, molti dei miei amici più cari vivono qui. Quando sono molto depresso, come in questi giorni per via della pandemia, vado sul sito Idealista e guardo le case, come se dovessi comprarne una, in qualunque città, solo per fantasticare di poterci vivere ancora. Proprio ieri ho trovato un bell’appartamento a Cremona, dove non sono mai stato. Mi piacciono le cittadine di provincia, come Pordenone, che conosco bene per il festival. Ho vissuto in grandi città, Firenze e Roma, e nella campagna di Grosseto».
Nell’introduzione scrive che negli anni Ottanta negli Usa c’era un fondo di normalità «su cui potevi contare, qualunque disastro capitasse a te o ai tuoi amici o a un altro Paese». Definisce Donald Trump «uno spregevole ciarlatano con una brutta pettinatura» che è riuscito «con metodi truffaldini a piazzarsi nello Studio Ovale». Pensa che con la presidenza di Joe Biden si possa tornare a una forma di normalità?
«Se Trump fosse stato rieletto avrei dovuto andarmene, e con me molti altri. Negli Stati Uniti siamo stati molto fortunati, non abbiamo mai sperimentato un leader totalitario come in Europa e l’esperienza di Trump, un pazzo aspirante dittatore, è stata incredibilmente drammatica. Ha fatto così tanti danni che ci vorrà molto tempo per ripararli. Biden sta facendo tutte le cose giuste ma non potrà farlo velocemente. Sono sicuro che se Trump non fosse stato presidente la storia della pandemia in Usa sarebbe stata molto meno drammatica, con meno morti. Ora la situazione dovrà peggiorare prima di migliorare».