La Lettura, 14 febbraio 2021
Il diavolo nell’arte
In pieno secolo XVI, con parole enigmatiche e di rutilante efficacia, François Rabelais faceva spiegare a Panurge, nel XXIII capitolo del Libro III Dei fatti e detti eroici del buon Pantagruele, che i diavoli (les diables) temono moltissimo ogni possibile soluzione di continuità nelle loro sostanze aeree. Si può bene immaginare, allora, almeno una ragione di questa loro folle paura, una paura che potrebbe estendersi al demoniaco nelle sue varie, e pure contrastanti, accezioni. Per creare una soluzione di continuità, una lacuna in ciò che percepiamo o ci immaginiamo come continuo, basta togliere realtà al punto matematico. Si aprirebbe allora uno squarcio nella sostanza aerea del demone, che di solito predilige, per manifestarsi, proprio il punto e l’istante.
Forse è Giordano Bruno a darci l’esempio più esplicito di come, ai suoi tempi, si potesse ravvisare nei punti, specialmente nei punti di intersezione di curve nello spazio geometrico, una presenza demoniaca. Bruno aveva certamente in mente le costruzioni geometriche di Euclide. Nella prima Proposizione degli Elementi Euclide faceva intervenire i punti di intersezione di circoli nella costruzione più semplice e fondamentale, quella di un triangolo equilatero (Elementi, I, I), ma l’esistenza di questi punti sarebbe stata possibile solamente grazie a un principio di continuità, che peraltro Euclide non includeva tra i suoi postulati. In assenza di questo principio, di cui si cominciò a essere consapevoli nel Cinquecento, e che fu poi precisato dai matematici del XIX secolo, non potevano esistere, in generale, né i punti di intersezione tra curve, e nemmeno i demoni che vi risiedevano.
Sono d’altronde innumerevoli le testimonianze che comprovano l’immancabile e inquietante puntualità o istantaneità del carattere demoniaco, del piombare del demone infernale nel bel mezzo di una scena o semplicemente di una condizione umana o esistenziale, da François Rabelais a Pierre de Ronsard, dai tragici greci a Søren Kierkegaard, da Fëdor Dostoevskij a Gilles Deleuze. Il balzo improvviso, pesante, istantaneo, sembra essere una sua prerogativa, la singolarità del punto, la sua modalità preferita di apparizione. Secondo certe credenze arabe pare che i demoni chiamati djinns non fossero puri spiriti, ma esseri capaci di rendersi invisibili o visibili in forme ibride di animali a loro piacere. L’ipotesi che assumessero forme animali è avvalorato dal fatto che presso gli arabi i demoni erano comunemente associati a serpenti e a scorpioni, non solo per il pericolo dei loro morsi e delle loro punture, ma anche per lo scatto fulmineo e repentino dei loro movimenti. Su questa linea possiamo ricordare uno dei demoni più mostruosi dell’Inferno dantesco (Canto XVII), Gerione, che aveva la «la faccia d’uom giusto», ma il corpo di serpente e la coda di scorpione. Un’immagine che richiama quella delle locuste dell’Apocalisse (IX), che avevano la stessa coda degli scorpioni, e nel pungiglione lo stesso potere omicida.
Come osservava Paul Tillich nel saggio Il demoniaco (di cui Luca Crescenzi ha curato l’edizione italiana del 2018 per Ets), il demoniaco trova compimento nella sfera spirituale, ma le sue forze distruttive operano immediatamente in una sfera sub-spirituale. «La realtà animale, lo spirito deformato, è la più potente immagine del demoniaco; poiché essa implica la duplice dialettica di creativo e distruttivo, di spirituale e sub-spirituale». Il principio satanico, al contrario, pensa solo a distruggere.
Nella tragedia greca non manca certo l’intervento subitaneo e improvviso del demone. Nei Persiani di Eschilo (515-516) il corifeo racconta che fu un demone a balzare pesantemente sui piedi (podoîn enélou, da anállomai) dell’intero popolo persiano, provocando la spaventosa ecatombe in cui si risolse, con la sconfitta di Salamina, la spedizione del re Serse in Grecia. Al contrario gli dèi della mitologia indiana del Mahabharata, nel mostrarsi agli uomini, avevano un aspetto etereo e impalpabile e non toccavano neppure la terra con i piedi. E gli stessi dèi greci, che secondo Omero (Iliade, XIII, 72) «si riconoscono facilmente», non hanno nulla della travolgente brutalità del demone. Gli dèi beati, apprendiamo ancora da Omero (Iliade, V, 340 sgg), non bevono vino, non mangiano pane e in loro scorre una linfa immortale diversa dal sangue.
Nell’Agamennone (verso 1.468) è ancora un demone vendicatore a piombare improvvisamente nella reggia dei nipoti di Tantalo. L’azione del demone è resa da empípto, che vuol dire cadere su, presentarsi con forza, abbattersi. Lo stesso verbo appare nel celebre (per lo sviluppo delle geometrie non euclidee nel XIX secolo) quinto postulato degli Elementi di Euclide: se una retta che cade (empíptousa) su due rette determina due angoli interni, dalla stessa parte, minori di due angoli retti, allora le due linee prolungate indefinitamente si incontrano dalla stessa parte in cui ci sono i due angoli minori di due retti.
In un passo dell’Edipo re di Sofocle (1.300-1.302), che Gilles Deleuze riprende in Differenza e ripetizione (il Mulino, 1971; Raffaello Cortina, 1997), si accenna ancora al balzo dei demoni che ci inducono ad azioni efferate o ci consegnano a un destino infausto. Chiede infatti il corifeo dell’Edipo: «Quale demone ha fatto un balzo più possente del salto più alto sul tuo sciagurato destino (moíra)?».
Nei Demoni di Dostoevskij il carattere istantaneo dell’intervento demoniaco non è imprevisto, ma ben calcolato e programmato. Dopo avere dichiarato che «tutto è bene, tutto. Chiunque sa che tutto è bene, è felice», Kirillov, uno scrupoloso ingegnere civile, ricorda di essersi sentito felice in un momento preciso e registrabile, al modo in cui lo annoterebbe «un demonio calcolatore, un ragioniere», con la pretesa di anticipare l’angelo dell’Apocalisse, che giura che il tempo sarà abolito: «Fermai l’orologio», egli puntualizza, «erano le due e trentasette».
Nella lunga lettera in cui Stavrogin, definito «saggio serpente» e raffinato giovane con l’anima di una belva, confessa la sua violenza su un’adolescente, i momenti decisivi dell’azione sono registrati dalle lancette di un orologio: sono annotati l’ora e il minuto precisi. Il nichilismo di Šigalëv non è da meno: il suo è l’aspetto di chi attende la distruzione del mondo, ma non in un giorno qualsiasi, bensì «in una data perfettamente determinata, come per esempio dopo domani mattina, alle dieci e venticinque precise». La cosa più terribile, avrebbe poi commentato Nietzsche a proposito di Kirillov, «è la raccapricciante determinatezza (Bestimmtheit) con cui ciò si esprime, e la gioia di cui si riempie». La precisione si coniuga così con la risolutezza demonica, la determinatezza con la pronta determinazione a compiere un atto per il quale tutto il tempo deve concentrasi in un solo istante, in un singolo momento astratto. Vengono in mente, a questo proposito, le parole di Kierkegaard: «Allora si predica il “momento”; e come la via alla perdizione è lastricata di buoni proponimenti, così non si può annientare meglio l’eternità che non con tutti quei momenti».
È stato peraltro proprio Kierkegaard, nella sua analisi del concetto di angoscia, a sondare l’enigma del subitaneo manifestarsi del serpente nell’Eden, o del balzo improvviso, istantaneo, puntuale di Mefistofele. Quando si vuole rappresentare un Mefistofele, scrive Kierkegaard, gli si può mettere in bocca una battuta che funzioni come forza motrice nell’azione drammatica invece di dare propriamente un’idea del suo carattere. «Ma le parole più terribili, che risuonano dall’abisso del maligno, non possono produrre l’effetto che esercita, entro i limiti dell’arte drammatica, l’improvviso del salto. Per quanto la parola sia terribile (...) conserva sempre la sua forza redentrice; infatti, tutta la disperazione, tutti gli orrori del male compresi in una sola parola non destano lo spavento che può suscitare il silenzio».
Kierkegaard si rifaceva in particolare al maestro di ballo August Bournonville e alla sua rappresentazione dell’entrata subitanea di Mefistofele sulla scena. «Quale orrore ci assale quando vediamo saltare Mefistofele dalla finestra e fermarsi nella posizione del salto! Questo movimento del salto, che fa pensare al guizzo dell’uccello di rapina e al balzo della bestia feroce – il quale spaventa tanto di più quanto, di solito, prorompe da un’immobilità completa —, è di un effetto immenso! Perciò la prima apparizione di Mefistofele nel balletto Faust non è un colpo di scena, ma un pensiero molto profondo. La parola e il discorso, per quanto brevi, hanno sempre una certa continuità. (...) Ma l’improvviso è l’astrazione completa dalla continuità, tanto da ciò che precede quanto da ciò che segue. Così con Mefistofele. Non l’abbiamo ancora visto, ed eccolo lì, pieno di vita, tutto intero (...). Mefistofele rivela il suo carattere, che, precisamente come il demoniaco, è l’improvviso».
L’istante della sua apparizione segna quindi una improvvisa discontinuità e corrisponde a un punto singolare. La soluzione di continuità rimarca l’attimo repentino e decisivo dell’apparizione, e segna un punto del continuum temporale che riceve forza e risalto proprio dall’improvvisa discontinuità, nonché dal feroce e angoscioso silenzio, spalancato sul nulla, che di solito la precede. Sarebbe potuto mai irrompere sulla scena, Mefistofele, se si fosse cancellato quel punto di singolarità dal flusso continuo del tempo?
A capire come un salto artistico sulla scena possa mirare all’astrattezza di un punto, possono aiutare le osservazioni di Vasilij Kandinskij nel suo saggio Punto, linea e superficie del 1955 (Adelphi, 1968). Il punto geometrico, egli osserva, è un’entità invisibile e immateriale, equivalente a uno zero se pensato materialmente. Eppure in questo stesso zero si nascondono impensabili proprietà «umane». Noi ci rappresentiamo questo punto geometrico o questo zero «come associato alla massima concisione, cioè con un estremo riserbo, che però parla. In questo modo, nella nostra rappresentazione, il punto geometrico è il più alto e assolutamente l’unico legame fra silenzio e parola».
Per questo motivo, secondo Kandinskij, il punto geometrico avrebbe trovato una funzione insostituibile nella scrittura, dove è un’indicazione singolare e discontinua del silenzio, dell’interruzione, del non essere. Nella scrittura esso ha una valenza negativa come allusione al non essere, ma anche positiva come un possibile ponte di passaggio da un essere a un altro. Tuttavia il punto è stato pure strappato dalla sua condizione abituale e liberato dalla sua subordinazione, ad opera dell’elemento pratico-funzionale, fino a prendere lo slancio per vivere come entità autonoma, per esempio nella pittura. In pittura esso può allora acquisire grandezze variabili e forme inconsuete, non solo circolari, ma anche quadrate, triangolari o trapezoidali, e assumere diversi significati in corrispondenza alla superficie di fondo. Nella plastica e nell’architettura il punto risulta dall’intersezione di linee e superfici, e può rappresentare l’estremità di un angolo nello spazio o il culmine di una altezza sottolineata da un pinnacolo acuto, come nelle costruzioni gotiche.
Ma il punto, sottolinea Kandinskij, ha un ruolo anche nella danza e «il ballerino usa il punto anche nei suoi salti. Egli mira chiaramente al punto, sia nel salto in alto, con la testa, sia nel rimbalzo, quando viene in contatto col terreno. I salti nella danza moderna possono in alcuni casi essere contrapposti al salto del balletto classico, in quanto esso un tempo formava una verticale, mentre il salto moderno forma qualche volta una superficie a cinque angoli con cinque punte – la testa, le due mani, le due punte dei piedi – mentre, nello stesso tempo, le dieci dita formano dieci punti più piccoli». A titolo di esempio, Kandinskij bloccava in un’istantanea fotografica questa configurazione a più punti in un salto della danzatrice Gret Palucca. Ma allora, come non scorgere una convergenza alla singolarità del punto anche nel salto di Mefistofele di cui parla Kierkegaard, oppure nel balzo potente e improvviso dei demoni che muovono la trama dei Persiani e dell’Agamennone di Eschilo oppure dell’Edipo re di Sofocle?
Tillich osservava che le forze insieme vitali e distruttive che muovono il demoniaco si manifestano di solito in realtà positive che si oppongono alla forma, ma sono pure capaci di introdursi in qualche forma artistica. Non esiste solo la mancanza o la distruzione della forma, e il demoniaco può anche assumere aspetti non esplicitamente infernali. Si dovrebbe pure distinguere, peraltro, il «demoniaco» dal «demonico» come sinonimo di genio divino e ispiratore, affine al genius o daímon di Socrate.
Nelle sue conversazioni con Johann-Peter Eckermann, Johann Wolfgang von Goethe notava che lo stesso Mefistofele è troppo negativo per essere demonico, perché «il demonico (das Dämonische) si manifesta sempre in una capacità di azione assolutamente positiva». Esiste anche la forma che potremmo immaginarci possa opporsi alla forma, e che si manifesta in modo da evocare «l’abisso, l’immediatamente potente, che irrompe nella realtà», perché «l’abisso regge anche gli atti dello spirito e del dominio dei sensi, nei quali non è compreso l’abisso stesso, ma le forme e le figure sensibili che su di esso riposano».
Forme e figure esemplari, in tal senso, potrebbero allora diventare (e lo sono effettivamente diventate nei secoli o nei millenni che ci hanno preceduto) quelle stesse nozioni matematiche di continuo e discontinuo, e quella stessa nozione astratta di punto, nelle quali si riassume infine la combinazione dialettica di forma e di assenza di forma, di atto e di potenza, di essere e di nulla. Il punto, che per Euclide era un’entità senza parti, interveniva in ogni costruzione geometrica. E Aristotele aveva allora ottimi motivi per affermare che è del tutto assurdo pensare che il punto sia vuoto.