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 2021  febbraio 14 Domenica calendario

Intervista a James McBride

«Sono onorato di essere paragonato a Mark Twain, magari fossi bravo come lui. È uno dei più grandi autori americani e certi benpensanti dovrebbero lasciarlo in pace. Criticarlo perché usava la parola nigger (“negro”) è ridicolo. Un autore scrive nel proprio tempo, e allora quell’espressione era corrente. E poi Twain scriveva di fratellanza: che importa quale linguaggio usasse? Lo tacciano di paternalismo, ma lo stesso paternalismo si ritrova nei grandi autori afroamericani a proposito dei bianchi. Il linguaggio si evolve, oggi Twain si esprimerebbe in modo diverso. Ma amava questo Paese, e voleva che andassimo d’accordo».
Serviva la lucidità di uno scrittore libero dalle ideologie come James McBride, 63 anni, vincitore del National Book Award nel 2013 per la narrativa con The Good Lord Bird. La storia di John Brown, appena uscito in Italia per Fazi, per riportare la ragione nella discussione su uno dei bersagli della cancel culture. Nato e cresciuto a Brooklyn da madre ebrea e padre nero, frequente collaboratore di Spike Lee per cui ha scritto anche Miracolo a Sant’Anna, tratto dal suo romanzo del 2001, in The Good Lord Bird, paragonato ad Huckleberry Finn, McBride narra in chiave comica, attraverso la voce dell’ex giovane schiavo Henry, detto «Cipollina», che fugge con lui, le vicende dell’eroe abolizionista bianco John Brown alla vigilia della Guerra Civile. Dal libro è tratta l’omonima miniserie con Ethan Hawke andata in onda in autunno su Sky Atlantic (e disponibile su Sky on demand e Now Tv), mentre il nuovo romanzo di McBride, Deacon King Kong, in uscita per Fazi nel 2022, è stato acquistato per un’altra serie da Elisabeth Murdoch.
John Brown era un grande uomo di fede, rigoroso e austero. Un martire, paragonato perfino a Mosé e a Gesù Cristo. Come le è venuto in mente di farne una commedia?
«Perché parlare di questioni razziali, in America, è difficile, e a volte la commedia può far riflettere più della tragedia. Anni fa avevo scritto un romanzo serissimo sull’abolizionista Harriet Tubman: non aveva venduto una copia. John Brown era perfetto per la caricatura proprio perché così serio e religioso. C’è, nei predicatori, un aspetto di comicità spesso sottovalutato. E poi sono cresciuto a Brooklyn, tra vecchi neri che bevevano troppo e si raccontavano storie, spanciandosi dalle risate. Il personaggio di Henry è ispirato a loro».
Come Huck Finn, Henry si veste da ragazza, e centrale, nel romanzo, è la riflessione sull’identità. Perché?
«L’identità è fondamentale. In America, se la tua pelle è appena scura, il tuo destino è già segnato: moltissima gente ti giudicherà solo per quello. Anche per me è stato così, ma sono stato cresciuto da una meravigliosa donna ebrea che mi ha insegnato l’uguaglianza: mia madre Ruth, a cui è dedicato il mio primo libro (Il colore dell’acqua, per due anni tra i bestseller del “New York Times”, ndr), figlia di un rabbino polacco ed emigrata in America a due anni. Fuggì dalla Virginia, e dal padre violento, ad Harlem, dove sposò un nero, si convertì e nel 1954 fondò con lui una chiesa battista a Brooklyn, allevando dodici figli e portandoli tutti alla laurea. La cultura afroamericana è stata molto buona con me e con mia madre, e se mi chiedono di descrivermi, ad esempio sui moduli, barro la casella “nero”, ma sono altrettanto fiero delle mie origini ebraiche. In The Good Lord Bird ho creato un ragazzino nero scambiato per una ragazzina nera in un momento in cui la vita nera valeva molto poco. Ma volevo anche illustrare la volontà di Brown di liberare i neri a ogni costo, sia che essi volessero o no. Brown scambia Henry per una ragazza perché anche lui in un certo senso porta dei paraocchi e non vede le cose come dovrebbe».
Nel romanzo ci sono altri grandi abolizionisti, come Frederick Douglass e Harriet Tubman. Che rapporto avevano Brown e Douglass?
«Erano amici, anche se molto diversi. Douglass non aveva il coraggio né l’intenzione di rischiare la vita per i propri ideali come Brown. A Brown non importavano i beni materiali, Douglass amava gli abiti di ottima fattura, era un borghese. Un grande uomo, sì, ma un politico, mentre Brown era un profeta, un uomo guidato da Dio».
Molti accademici di colore criticano la decisione di Joe Biden di accelerare sulla proposta di Obama di mettere la Tubman sulla banconota da 20 dollari al posto del presidente schiavista Andrew Jackson. I neri, dicono, non hanno bisogno di simboli, ma di risarcimenti economici. Che ne pensa?
«Certi accademici si dilettano in discorsi carini, ma la verità è che non hanno mai saltato un pasto. Certo che abbiamo bisogno di simboli. Ho diretto un progetto, presso la mia chiesa di Red Hook, a Brooklyn, per bambini poveri (neri e non solo, perché anche moltissimi bambini bianchi sono poveri, in America), e di queste polemiche a me non frega nulla. È ovvio che abbiamo bisogno di fatti, ma è altrettanto importante che i giovani abbiano modelli cui ispirarsi. La storia appartiene ai vincitori, e i vincitori, nella storia americana, sono solitamente maschi bianchi. Ecco perché è bello avere una donna nera su una banconota e una donna nera vicepresidente. Io sono interessato alle soluzioni, non alle polemiche. Mettere la Tubman su una banconota è parte, pur se piccola, della soluzione».

Dopo il ritratto che il «New Yorker» aveva fatto di Ethan Hawke, una discendente di John Brown ha scritto al giornale osservando che la serie tratta da «The Good Lord Bird» non rifletteva il lavoro degli storici di Brown. Che cosa ne pensa?
«Marty Brown ha ragione, ma il punto della serie, e del mio romanzo, non era uno studio accademico su Brown, ma fare in modo, attraverso un mezzo popolare, che tutti sapessero chi fosse Brown e che cosa significhi il suo nome per la storia degli Stati Uniti. Dovrebbero esserci università, monumenti nazionali intitolati a John Brown: la sua famiglia non ha ricevuto credito a sufficienza per i sacrifici che lui e i suoi figli hanno fatto per il nostro Paese. Per questo ho scritto The Good Lord Bird. Ethan e sua moglie, vera mente del progetto, sono venuti nella mia chiesa, abbiamo parlato per ore. Ho trovato la serie fantastica e molto fedele al testo».
Lei ha vissuto nella Brooklyn più volte descritta da Spike Lee. Insieme avete scritto «Red Hook Summer» (2012). Come si sono evolute le tensioni razziali, a Brooklyn, da «Fa’ la cosa giusta» del 1989?
«Le differenze di classe si sono acuite, complicando la questione razziale e trascendendola. Una volta Brooklyn era il quartiere dei neri, dei bianchi poveri che non potevano permettersi di vivere a Manhattan e di altre minoranze. La cultura più ricca proviene sempre dalle parti più povere di un Paese, e quella diversità rendeva Brooklyn un posto speciale. Oggi la multiculturalità è scomparsa, tutto è modaiolo, noioso. I musulmani, i latinoamericani sono stati costretti ad andarsene. Tutti, a Brooklyn, bevono caffè fighetti e scrivono romanzi in caffetterie fighette. Non è più divertente come un tempo».