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 2021  febbraio 14 Domenica calendario

Diversamente europei

Dalla cronaca alla storia. È trascorso poco più di un mese dall’entrata in vigore della Brexit, ma a Londra già si è passati alla fase della riflessione, all’inquadramento dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea nella più complessa vicenda di queste isole al largo del continente. E come la realtà politica della Brexit aveva diviso gli animi, così l’esplorazione delle sue ragioni profonde mette gli storici gli uni contro gli altri: a volte in una polemica diretta che tracima sulle pagine dei giornali.
È il caso dei due lavori usciti in queste ultime settimane, che vedono gli autori schierati su trincee opposte: da un lato c’è Philip Stephens, il principale commentatore politico del «Financial Times», dall’altro lato Robert Tombs, professore emerito di Storia all’Università di Cambridge. Il primo, implacabile critico della rottura con l’Europa; il secondo, ardente convertito alle ragioni della Brexit.
La chiave del libro di Stephens è già nel suo titolo: Britain Alone. The Path from Suez to Brexit («La Gran Bretagna da sola. Il cammino da Suez alla Brexit»). Per l’autore, la sciagurata spedizione militare sul Canale di Suez nel 1956 e l’uscita dalla Ue in seguito al referendum del 2016 sono l’alfa e l’omega di una «illusione», quella dell’eccezionalismo britannico. Già l’avventura egiziana «aveva messo a nudo la realtà del declino post-imperiale»: tutta la vicenda successiva non è altro che una serie di sconfitte auto-inflitte, radicate nell’incapacità di abbracciare il processo di unificazione europea fin dagli anni Cinquanta.
Per il commentatore del «Financial Times», non c’era nulla di inevitabile nella Brexit. Ma per spiegarla, essa va messa nel contesto dello sviluppo delle relazioni internazionali della Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale: che sostanzialmente delineano «una storia di ambizioni gonfiate e circostanze diminuite», in cui un’illusoria immagine di sé finisce per scontrarsi con la realtà.
Il momento della verità fu appunto la crisi di Suez nel 1956, quando divenne evidente che la Gran Bretagna non era più una potenza mondiale in grado di lanciare una spedizione militare all’estero, per difendere i propri interessi, contro il volere degli Stati Uniti, e che anche il Commonwealth, erede dell’impero, aveva i suoi limiti, visto che la maggioranza dei suoi membri si schierarono contro Londra alle Nazioni Unite.
Stephens addita il grande paradosso della politica britannica del dopoguerra: decenni di storia imperiale avevano fornito una prospettiva globale alle élite del Regno, ma le conseguenze della fine dell’impero non erano state chiaramente percepite da quelle stesse élite. Personaggi come Henry Tizard, già emissario di Winston Churchill presso Franklin D. Roosevelt, avevano provato a lanciare l’allarme: «Non siamo una grande potenza e non lo saremo mai più – aveva scritto nel 1945 —. Siamo una grande nazione, ma se continuiamo a comportarci come una grande potenza smetteremo di essere una grande nazione». La tragedia è che quel monito rimase inascoltato.
Stephens riconosce che c’erano una serie di ragioni immediate dietro il voto a favore della Brexit nel 2016: le politiche di austerità, le crescenti diseguaglianze, i timori per l’immigrazione, le conseguenze della globalizzazione e dei cambiamenti tecnologici. Ma tutto ciò va inquadrato in una cornice più ampia: la difficoltà della Gran Bretagna post-bellica a trovare un’identità dopo la perdita dell’impero. 
Al cuore della Brexit, sostiene l’autore di Britain Alone, c’è la ricerca di un passato idealizzato, un eccezionalismo inglese che faceva a pugni con la realtà della geografia e di un potere economico in declino. E come la spedizione si Suez era stata l’ultimo squillo di tromba dell’impero, l’uscita dalla Ue conferma il rifiuto di accettare un ruolo più modesto: mentre il resto dell’Europa si impegnava a mettere in comune la sovranità, la Gran Bretagna guardava ancora a un orizzonte più vasto. 
Fin dai tempi di Churchill, Londra si vedeva all’intersezione di tre cerchi: l’impero, gli Stati Uniti d’America, l’Europa. E se Churchill si considerava un buon europeo, riteneva comunque che l’integrazione politica fosse un affare del continente, non della Gran Bretagna. Come ebbe a dire Anthony Eden, allora suo ministro degli Esteri, «la storia e gli interessi della Gran Bretagna si collocano ben al di là del continente europeo». 
Una hybris, la definisce Stephens, che si riverbera fino a Boris Johnson: la Brexit invece non può cambiare il dato dell’economia, della geografia e della geopolitica. La Gran Bretagna resta ciò che era, ossia una potenza europea, anche se con estesi interessi. E dunque per i 40 anni di appartenenza all’Unione Europea, Londra sembrava aver trovato una riposta alla sua questione esistenziale, ossia quale fosse il suo ruolo dopo la perdita dell’impero: che consisteva ora in una stretta relazione con gli Stati Uniti congiunta a un ruolo-guida in Europa, un doppio pilastro che consentiva di amplificare la propria voce tanto a Washington quanto a Bruxelles. Ma la Brexit ha rimesso tutto in questione: c’è da chiedersi dove andrà ora a collocarsi la Gran Bretagna.

Un’argomentazione serrata, quella di Stephens, che però ha attirato gli strali pubblici di Robert Tombs: niente più che «un riassunto della visione del mondo dell’establishment anti-Brexit», che altresì «rende espliciti gli assunti non detti, le illusioni e le limitazioni dell’ortodossia anti-Brexit». Lo storico di Cambridge ribalta le accuse: sono i filo-europei che sembrano ossessionati dall’idea della perdita dell’impero e fanno risalire tutto a essa, atteggiamento dimostrato chiaramente dal libro di Stephens. E quanto al presunto declino economico, è tutto da provare: Tombs ricorda che per quasi vent’anni la Gran Bretagna è cresciuta più dell’Eurozona e che le sue esportazioni si sono inesorabilmente riorientate verso gli altri continenti.
Anche l’accademico di Cambridge fa appello alla geografia e alla storia, ma per trarne conclusioni opposte e sostenere la validità della Brexit: «La geografia viene prima della storia – scrive in This Sovereign Isle, “Quest’isola sovrana” —. Le isole non possono avere la stessa storia delle pianure continentali. Il Regno Unito è un Paese europeo, ma non lo stesso tipo di Paese europeo come lo sono la Germania, la Polonia o l’Ungheria». Perché per gran parte dei 150 secoli in cui sono state abitate, le isole britanniche sono state ai margini, letteralmente e culturalmente, rispetto all’Europa continentale: un posto complicato e potenzialmente pericoloso, che era meglio evitare. 
La separazione dovuta al Canale della Manica, nella visione di Tombs, ha consentito alle istituzioni di Londra di svilupparsi in maniera ininterrotta, mentre le nazioni europee sono state devastate da guerre, genocidi e totalitarismi: la traiettoria storica britannica, soprattutto dopo lo scisma anglicano, ha seguito un percorso differente. Dunque la Gran Bretagna, sostiene lo storico, non ha mai avuto un legame organico e permanente con l’Europa, mentre le sue connessioni extra-europee non hanno paragoni e sono molto più importanti di quelle di altri ex imperi, come la Francia o la Spagna. E ciò che veramente conta è che Londra non venne mai sconfitta o occupata durante le guerre mondiali: il che significa che la sua esperienza del XX secolo è radicalmente diversa da quella di Germania, Italia o Francia. 
A guardarli assieme, i due lavori di Stephens e Tombs appaiono piuttosto complementari: entrambi prendono le mosse dall’unicità del retaggio della Gran Bretagna, anche se approdano a conclusioni opposte. Il primo ritiene che Londra si debba ormai acconciare a una mutata realtà, il secondo fa prevalere la forza gravitazionale della storia. Ma ormai «questa pietra preziosa incastonata nel mare d’argento», per dirla con Shakespeare, dovrà trovare da sola la sua risposta.