La Lettura, 14 febbraio 2021
Intervista a Churchill
Tra le speranze di chi ha voluto la Brexit, c’era quella di liberarsi dagli impedimenti dell’Unione Europea per tornare agli splendori d’un tempo. La caparbia insularità della Gran Bretagna è stata da sempre il tratto distintivo di un impero globale che rivendica la capacità di far coincidere i propri interessi con la difesa delle libertà della tradizione occidentale. In questo senso l’immagine dell’unica potenza europea non invasa da Hitler ha permesso al Regno Unito di amplificare la forza di quella narrazione per rivendicare una leadership morale planetaria di cui Winston Churchill rappresenta ancora il simbolo indiscusso. Ascoltarlo oggi può essere sorprendente. L’intervista allo statista è stata realizzata utilizzando quasi esclusivamente quanto da lui detto e scritto nei lunghi anni in cui, dalla fine del XIX secolo alla sua morte nel 1965, è stato attivo protagonista della scena pubblica.
Osservando quello che accade nel mondo, non le pare che esista un problema di legittimazione dei sistemi a democrazia liberale?
«A me non resta che ribadire ciò che ho sempre detto, vale a dire che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora. Questo vale non solo in tempo di pace. Ricordo che nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale ebbi modo di sostenere che la Camera dei Comuni è il fondamento della lotta per la nostra esistenza, che ha particolari responsabilità e potrà ancora una volta dimostrare al mondo la fierezza d’animo, il senso della misura e la decisione di propositi che le hanno dato fama in passato. Ovviamente per democrazia intendo quella parlamentare. Credo nella democrazia che agisce attraverso istituzioni rappresentative: solo nel sistema parlamentare possiamo garantire che la volontà del popolo troverà sempre un’espressione aperta e libera. I membri del Parlamento sono infatti rappresentanti e non delegati. Ritengo anche che i governi debbano considerarsi le guide e allo stesso tempo i servitori della nazione. Se questi principi venissero minati rivolgendoci direttamente al popolo, ci troveremmo in un mare agitato da frenetica propaganda elettorale e dalle peggiori forme di giacobinismo, cesarismo e anarchia. L’estendersi della pratica referendaria è quindi da scongiurare. In un sistema rappresentativo i referendum debbono essere rari, anche perché sono in grado di distruggere le credenziali del governo che non dovesse vincere. Più in generale posso dire che una democrazia su queste basi sarebbe più vendicativa di quanto potrebbero esserlo i tradizionali governi di Gabinetto e alla fine abbiamo sperimentato che le guerre tra i popoli sono state più orribili di quelle tra i re».
Ma oggi molti di questi princìpi sono sotto attacco nel mondo.
«Io sono nato nel XIX secolo e sono stato a lungo convinto di trovarmi all’alba di un’età liberale e del trionfo di una sempre più estesa civilizzazione. Abbiamo invece sperimentato il terribile XX secolo, con la sua guerra dei trent’anni (dal 1914 al 1945). In Inghilterra parliamo dei valori della vita minacciati, ma siamo consapevoli che c’è molto nell’attuale civilizzazione che non può essere comparato con le cose ritenute verità fondamentali nel XIX secolo. I filosofi greci e latini sembravano ignari che la società in cui vivevano si fondava sulla schiavitù. Parlavano di libertà e istituzioni politiche, ma erano del tutto inconsapevoli che la loro cultura era basata su queste detestabili fondamenta. Tutti noi oggi possiamo essere incoraggiati dai grandi progressi che abbiamo fatto e tutti noi apprezziamo la libertà per tutti. Tuttavia per riconciliare diritti individuali ed esigenze sociali abbiamo bisogno di una fiamma spirituale, quella dell’etica cristiana, che appare ancora la nostra migliore guida. La sua attivazione e realizzazione rappresentano una necessità pratica, spirituale e materiale. È questa la più vitale questione del futuro».
Che cosa pensa del suo Paese?
«Mi sono dato la regola, quando mi trovo all’estero, di non attaccare mai il governo del mio stesso Paese. Recupero il tempo perduto quando torno a casa. Detto questo bisogna essere franchi: non siamo un popolo giovane con un passato innocente e una piccola eredità. Ci siamo accaparrati una quota assolutamente sproporzionata dei beni e dei traffici mondiali. Abbiamo avuto tutti i territori che volevamo, e la nostra pretesa di essere lasciati in pace a goderci possedimenti vasti e splendidi, acquisiti principalmente con la violenza, mantenuti in gran parte con la forza, in molti casi è sembrata agli altri più irragionevole che a noi. La politica britannica per quattro secoli è stata opporsi alla più forte potenza europea, creando una combinazione di altri Paesi forte abbastanza per fronteggiare il prepotente di turno. A volte era la Spagna, a volte la monarchia francese, a volte la Germania. Però, detto questo, sia l’Inghilterra ciò che vuole! Con tutte le sue colpe, è sempre il mio Paese, anche perché qui è nata la nota catena di eventi che ci ha reso quello che siamo: i diritti, le libertà, la tolleranza. Se c’è una razza al mondo capace di uno sforzo senza tregua, quella è la britannica. Sono però convinto che tale capacità debba essere messa al servizio dell’umanità. Ritengo che il compito della Gran Bretagna rimanga quello di diffondere le idee dell’autogoverno, della libertà della persona e delle istituzioni parlamentari».
Con l’Irlanda però l’ideale dell’autogoverno è stato messo a dura prova. Esattamente cent’anni fa, con il Trattato anglo-irlandese, nasceva lo Stato libero d’Irlanda, poi divenuto Repubblica.
«Mi rendo conto di essere sempre stato attivamente coinvolto nella politica irlandese sin dalla fine del XIX secolo e non mi sono sempre trovato, per dirla con un eufemismo, in stretto e sincero accordo con gli irlandesi. Ho sempre trovato gli irlandesi un po’ strani, dal momento che si rifiutano di essere inglesi. Questo mi ha reso per molti anni rabbioso e incapace di comprendere la loro ostilità. Le difficoltà erano cominciate con la concessione dell’autonomia, rimango infatti dell’opinione che la proposta di un Parlamento separato per l’Irlanda sia stata pericolosa e poco pratica. Proprio nel 1921 ero titolare del ministero della Guerra ed ero pronto a imporre la legge marziale e a scatenare una violenta rappresaglia. Ricevetti allora una lettera di Clementine, mia moglie, che ancora conservo in cui diceva: “Mi rende infelice e delusa vederti convinto che riuscirai a risolvere tutto con un ruvido e barbaro pugno di ferro”. Fortunatamente proprio in quei giorni lasciai la guida di quel ministero, poi seguii le trattative. Ora comunque la separazione tra Ulster e Irlanda è garanzia di equilibrio. Sono stato contento di vedere l’ingresso della Repubblica irlandese nell’Onu perché ritengo che il passare degli anni e una maggiore circolazione delle idee finiranno per mettere in luce temi su cui ci troveremo d’accordo».
Che cosa pensa delle alterne fortune del rapporto tra l’Europa e la Gran Bretagna, ora segnato dalla Brexit?
«La causa dell’Europa unita mi è sempre stata cara. Ho ricevuto nel 1956 il premio Carlo Magno destinato a coloro che hanno contribuito alla causa dell’unità europea e nessuno più di me può confermare che la Gran Bretagna è legata all’Europa. Tuttavia per il Regno Unito la situazione andrebbe descritta con la metafora dei tre cerchi uniti tra loro: il cerchio della Gran Bretagna e Commonwealth, il cerchio del mondo di lingua inglese, il cerchio dell’Europa unita. Tutti questi potenti cerchi debbono formare un baluardo contro il totalitarismo. Insomma noi siamo con l’Europa, ma non parte di essa. Siamo collegati, ma non legati a essa. Vi siamo interessati e associati, ma non assorbiti. La nascita dell’Europa però è indispensabile e può sorgere soltanto dal desiderio profondo espresso dalla grande maggioranza di tutti i popoli! Senza un’Europa unita, Russia compresa, non esiste alcuna sicura prospettiva di governo mondiale. I promotori dell’Europa unita, però, dovrebbero avere come motivo ispiratore la Carta dei diritti umani, difesa dalla libertà e sostenuta dalla legge. Sarà un’Europa in cui gli uomini potranno affermare orgogliosamente: “Sono europeo”, esattamente come quando si diceva: Civis romanus sum. Dobbiamo creare una sorta di Stati Uniti d’Europa in cui gli uomini di ogni Paese si mostreranno consapevoli della loro appartenenza a tale continente, senza smarrire l’amore e la fedeltà verso la loro patria. Auspico che in qualunque luogo di questo vasto continente si rechino, essi possano sinceramente dire: qui io sono a casa, sono un cittadino anche di questo Paese. Non dimentichiamo che stiamo pur sempre parlando della regione più attraente, temperata e fertile del globo. L’influenza e la potenza dell’Europa e della cristianità hanno modellato e condizionato per secoli il corso della storia. I nostri antenati hanno raggiunto tutte le parti del mondo portandovi la loro civiltà. La religione, le leggi, la cultura, l’arte, la scienza e l’industria recano in tutti i Paesi, sotto ogni cielo e clima, l’impronta della loro origine europea. L’Europa rappresenta un concetto spirituale, ma se gli uomini smettono di ricordarlo e custodirlo nei loro cuori, esso si estinguerà. Tra l’altro mi è stato riferito che l’idea di un’Europa unita esercita un forte richiamo sugli italiani, i quali ricordano, anche dopo secoli di disordine, le glorie dell’epoca classica, quando gli uomini potevano viaggiare liberamente grazie a una cittadinanza comune».
Per quanto riguarda l’Italia, Mr Churchill, ancora si discute del suo ambiguo rapporto con il fascismo e del suo atteggiamento razzista verso gli italiani.
«Nessuno è stato più anticomunista di me e dunque dopo la Grande guerra non ho avuto dubbi nel sostenere che il movimento fascista ha reso un servigio al mondo intero. Se fossi stato italiano, sono sicuro che avrei dato la mia entusiastica adesione alla vittoriosa lotta contro le passioni bestiali del leninismo. L’Italia ci ha offerto l’antidoto necessario al veleno russo. Tuttavia l’aggressione all’Etiopia mostrò tutti i limiti di Mussolini. Avevo intuito già nel 1935 che quello sarebbe stato un punto di non ritorno: gettare un esercito di un quarto di milione di uomini su uno sterile lido distante duemila miglia dalla patria, contro l’opinione del mondo intero e senza controllo dei mari e quindi imbarcarsi in una serie di campagne contro un popolo e in regioni che nessun conquistatore in quattromila anni ha ritenuto valesse la pena di sottomettere, è un rendersi ostaggio del destino, che non ha un parallelo in tutta la storia. Razzista? Lo divento con chi si contrappone agli interessi della civiltà anglosassone: non ho esitato a definire Gandhi “un fachiro in mutande”. E che dire di quel bizzarro popolo che sono gli italiani, capaci di perdere le guerre come se fossero partite di calcio e le partite come fossero guerre? Prima della caduta del regime si contavano 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti. Ma ben diversa è stata la mia considerazione quando, nell’aprile del 1948, ho espresso la mia emozione per la notizia dello storico evento: la sconfitta dei comunisti alle elezioni. L’Italia, liberata dalla dittatura fascista di Mussolini, si era salvata dalla dittatura bolscevica di Stalin. Noi, dissi, abbiamo sempre auspicato l’amicizia con il popolo italiano. Ora hanno scelto di entrare a far parte della civiltà occidentale e cristiana. L’Italia si era salvata, ma ero convinto che anche per gli altri Paesi sarebbe stata questione di tempo. Nel 1953 avevo preannunciato che nel giro di trent’anni l’Europa orientale sarebbe stata libera dal comunismo».
Perché dalla sconfitta del nazismo non è sorto un mondo più unito?
«Il nazismo è stato una minaccia mortale per l’umanità, per la quale nel 1941 non ho esitato a mettere da parte l’anticomunismo e dimenticare la distanza dall’Unione Sovietica: il passato, con i suoi crimini, le follie, le tragedie, scomparve. Non avevamo che un solo irrevocabile scopo, distruggere Hitler, e da questo obiettivo nulla ci ha distolto. Nulla. Sono arrivato a dire al mio segretario, subito dopo l’invasione tedesca della Russia, che se Hitler avesse invaso l’inferno, io, alla Camera dei Comuni, avrei fatto come minimo un rapporto favorevole al diavolo. Ma una volta distrutto Hitler, Stalin si è trasformato nella nostra principale paura».
Come valuta il ruolo degli Stati Uniti?
«Sono per metà americano, per parte di madre. Un fatto che i miei connazionali sottolineano quando si riferiscono al mio carattere “esuberante”. Il collega Harold Macmillan mi ha definito “un aristocratico inglese e al tempo stesso un giocatore d’azzardo statunitense” e mi posso permettere di dire che si può sempre contare che gli americani facciano la cosa giusta – dopo aver provato ogni altra cosa. Battute a parte, credo si dovrebbe parlare di Stati Uniti sempre all’interno del tema dell’unità dei popoli di lingua inglese. Quando ho avuto il grande onore nel 1963 di ricevere dal presidente John Kennedy la cittadinanza americana, ho ricordato che noi siamo un grande Stato sovrano perché rifiuto l’idea che la Gran Bretagna e il Commonwealth vengano relegate a un ruolo minore nel mondo. Certo, gli Stati Uniti sono al vertice della potenza mondiale. Con il primo posto tra le potenze detengono anche una responsabilità per il futuro. Rimangono però sempre il Paese a cui dopo la Seconda guerra mondiale siamo stati noi a passare il testimone: l’eredità globale del mondo di lingua inglese che, con la Magna Charta, l’habeas corpus, il procedimento penale basato sulla giuria, il diritto consuetudinario inglese, hanno poi trovato l’attuazione più autentica nella Dichiarazione d’Indipendenza americana. Crediamo che la nostra infrangibile unione rappresenti l’essenza della libertà e del pacifico progresso dell’umanità, che per rimanere tale deve continuare a basarsi sulla politica della “pace attraverso la forza” senza cadere mai nel pericolo della “subordinazione attraverso la debolezza”. Credo che grazie alla Nato il risultato possa essere raggiunto. Non c’è mai stato altro caso di nazione che, giunta al vertice del potere mondiale, non cercasse estensioni territoriali, ma usasse la sua forza e la sua ricchezza per la causa del progresso e della libertà. Avessero avuto gli americani questa prospettiva già all’inizio del XX secolo, ci saremmo risparmiati, loro inclusi, due spaventose guerre mondiali. Detto questo, sono consapevole che il mio obiettivo di trattare alla pari con gli Stati Uniti dopo la fine della guerra è stato irrealistico, ma non ho mai cessato di portare avanti politiche per la riduzione delle tensioni Est-Ovest. Credo che l’amministrazione Truman abbia avuto gravi responsabilità nell’accentuare il conflitto con l’Unione Sovietica. Più tardi ho avuto un pessimo rapporto con il segretario di Stato americano John F. Dulles, un falco della Guerra fredda, un individuo che predica come un ministro metodista. Dieci anni prima lo avrei messo al tappeto. E anche allora quel bastardo non mi aveva ancora battuto. Tuttavia nel 1943, a Teheran, mentre Roosevelt e Stalin scherzavano sulla mia britannica eccentricità, mi sono reso conto che siamo una piccola nazione. Lì sedevo accanto al grande orso russo, da una parte, e al grande bufalo americano, dall’altra. Tra i due c’era la povera, piccola scimmia inglese».
Il futuro?
«L’umanità si trova a un bivio decisivo. Da una parte la scienza apre un abisso di autodistruzione, dall’altra ci mostra una visione di abbondanza e comfort che nessuno ha mai conosciuto e neppure sognato. Una prospettiva, quest’ultima, che però può essere raggiunta solo a prezzo di un’eterna vigilanza. Il vero problema infatti sorge quando le guerre finiscono. Il totalitarismo ha il vantaggio di non dover tenere conto della pubblica opinione. Molti anni fa il premier greco Eleutherios Venizelos mi disse che l’Inghilterra vince sempre l’ultima battaglia. Il fatto è che la democrazia vince sempre tutte le sue guerre, ma perde tutte le sue paci. Come vincere la pace sarà la grande sfida del futuro».
Qual è il bilancio personale del vincitore morale della Seconda guerra mondiale?
«Politicamente le ambizioni personali che ho accarezzato in gioventù sono state soddisfatte oltre i sogni più audaci. In politica rimango convinto che un uomo ha successo non tanto per quello che fa, quanto per quello che è. Non è solo una questione di cervello, ma di carattere e originalità. Connessioni, amici potenti, un nome, buoni suggerimenti, tutte queste cose contano, ma ti fanno arrivare sino a un certo punto. Ti possono garantire l’ammissione alla “valutazione”, ma alla fine ogni uomo viene “pesato” e, se risulta scarso, niente gli potrà garantire la pubblica considerazione. Io ne ho avuta in abbondanza. Ho anche ricevuto un numero di lauree ad honorem maggiore di quello degli esami fatti, perché, come è noto, pur non avendo avuto una formazione universitaria, sono stato trattato come se fossi un uomo colto. Da questo punto di vista rappresento un buon esempio per gli studenti e le studentesse: non scoraggiarsi per i fallimenti della gioventù, ma perseverare cercando di imparare per tutta la vita. Non altrettanto soddisfacente è invece il bilancio dal punto di vista familiare. Il turbolento rapporto con mia moglie Clementine, da cui sono stato spesso separato a causa degli impegni politici, è stato alla base del difficile confronto con i nostri cinque figli, spesso trascurati. Dopo il trauma della morte a due anni di Marigold, l’unica figlia cresciuta senza problemi di dipendenza da alcol e farmaci è stata l’ultimogenita Mary a cui, non a caso, avevamo dedicato più attenzione. Tuttavia verso Clementine sono debitore nella mia periodica lotta contro il “cane nero” della depressione, che mi ha accompagnato per diversi tratti della mia vita. È stata fondamentale nel sostenermi e consigliarmi negli anni più difficili. Anche durante la guerra a Clemmie ho sempre detto tutto e una volta l’ho persino confidato a Roosevelt».
A proposito di Roosevelt, sa che il quadro che gli ha regalato sarà tra pochi giorni messo all’asta per una cifra che, si stima, oscillerà tra i due e i tre milioni di dollari? Si può dire che anche con i pennelli se la cavava piuttosto bene.
«Ogni mia ambizione è stata soddisfatta, tranne una: non sono un grande pittore. La pittura io la vedo come una guerra: l’attacco sulla tela va condotto con le tattiche di un generale sul campo di battaglia. D’altronde ho cominciato a dipingere a 40 anni, per caso, osservando mia cognata che stava disegnando, e da allora è diventata una passione impegnativa che mi ha molto assorbito anche negli anni della guerra, al punto che oggi ci sono 544 miei quadri. Quando sarò in paradiso, conto di passare una buona parte del mio primo milione di anni a dipingere, così da esplorare la materia sino in fondo».
Ci dica in una battuta la causa dei molti mali che affliggono oggi la politica nei sistemi democratici.
«Facile. Il problema consiste nel fatto che gli uomini non vogliono essere utili, ma importanti».