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 2021  febbraio 14 Domenica calendario

Intervista a Fanny Ardant

Gli anni, 71, non tolgono un grammo al fascino di Fanny Ardant, protagonista di una storia d’amore con il coetaneo Daniel Auteil. In La belle époque di Nicolas Bedos lui, grazie a un’agenzia specializzata, sceglie di rivivere il 16 maggio 1974, giorno in cui conobbe la donna della sua vita, la moglie che nel presente lo ha lasciato. Tra i premi accumulati dal film (ora sulla piattaforma IWonderfull) c’è il César alla diva francese, che si racconta con la sua voce roca al telefono da Parigi: «Il copione era brillante e malinconico.
Un inno d’amore all’amore. Da incurabile sentimentale non ho resistito».
I quattro protagonisti sono diversi per età, ma vivono le passioni con la stessa intensità.
«È questo il gioco sottile, i sentimenti non dipendono dall’età ma da quanto investi nell’amore. All’inizio del film sembro dura ma buttando fuori di casa mio marito mi regalo la possibilità di riconquistarlo. Quando lui flirta con l’attrice ingaggiata per fare me da giovane, capisce che siamo noi la cosa più importante.
Una coppia longeva è come un capolavoro».
È stato il primo set con Auteil.
«E che felicità: è un attore che mi ha sempre commosso. Mi sono divertita a litigare con lui. Un bel personaggio da commedia che non avevo mai avuto».
Lei a quale momento della sua vita tornerebbe?
«L’ultimo giorno di scuola, il primo delle vacanze,con l’ubriacatura e la follia della libertà».
Che bimba è stata?
«Non facile, sono stata buttata fuori da vari collegi di suore. Solitaria ma attaccata a fratelli, sorelle, genitori. Dicevo "sto bene con la famiglia, potrei rimanere così per sempre a mangiare cioccolata"».
Figlia di un ufficiale di Palazzo Grimaldi a Montecarlo, è cresciuta
in un contesto da favola.
«Da fuori può sembrare scintillante ma era normale per chi viveva lì».
Da adolescente?
«Ero difficile, ma avevo un padre intelligente e amorevole. La mia vita è iniziata quando ho lasciato Montecarlo per l’università, si è aperto il mondo delle idee».
Studiare Scienze politiche l’ha formata?
«Sì, mi piaceva la dialettica, il confronto. Le idee a quell’età accompagnano il cuore, non solo il cervello. Ho ammirato chi si è impegnato, io volevo già essere un’attrice, sono stata egoista».
Com’è nata la passione?
«Con la lirica. La prima è stata
Traviata. Guardavo quel sipario di velluto e provavo sentimenti forti. A mio fratello dissi "un giorno sarò sul palco". E lui "bon, sei matta". I miei genitori volevano per me un lavoro sicuro, speravano che fosse un capriccio. Mi dissero "prima fai l’università", pensando che sarebbe passata. Non è passata».
Com’erano i primi provini?
«Pensavo sempre di avere davanti degli stupidi, avevo un brutto carattere. Poi il successo ti pacifica.
Ricordo provini in cui non andavo mai bene: troppo grande o magra o con la faccia strana. Poi un giorno… è andata».
Al primo incontro con François Truffaut, poi suo compagno, ha capito che c’era qualcosa di speciale?
«Non capisco mai niente subito. Mi voleva in un film con Gérard Depardieu. Mi spedì una sinossi di La signora della porta accanto. In quella storia c’era quello in cui credevo: che si potesse morire per amore».
Perché aveva pensato a lei?
«Mi aveva visto in una serie sulla Prima gerra mondiale. Mi scrisse: "Ora è una gioia stare davanti alla tv al sabato sera". L’ho incontrato nel suo ufficio e poi…».
Il ricordo più forte del vostro primo set?
«La prima scena, quando mio marito mi presenta il vicino, Depardieu. Gli ho dato la mano, mi ha guardata in un modo che mi ha fatto dimenticare la macchina da presa. L’ho seguito d’istinto, come quando un uomo ti invita a ballare. Ero nel centro del personaggio, senza timidezze e paure».
Si aspettava un tale successo?
«Mai. Ricordo all’uscita della prima a New York una donna in lacrime che mi sussurra "è la mia storia". Tutti, uomini e donne, abbiamo dentro una storia che ci ha fatto quasi morire».
E poi "Finalmente domenica" con Trintignant, che si apre con la sua bellissima camminata.
«Con il mio piccolo cane. Si chiamava Golò, è anche nel film di Ettore Scola
La famiglia. Ettore mi aveva detto "ma questo cane ti segue dappertutto? Allora mettiamolo nell’inquadratura, quando cammini nel corridoio". Con Trintignant eravamo complici e pieni d’allegria».
Sul set nascono amicizie forti.
«È strano, ma conosci bene qualcuno solo dopo averci girato un film. Con Vittorio Gassman ho lavorato varie volte e lo conoscevo meglio che in vent’anni di vita vera. Ci siamo incontrati girando Benvenuta tra Napoli e Roma. Lui era un po’ chiuso, pensavo "che peccato". Poi, in una pausa, sento bussare con forza al mio camerino: "Posso dividere il mio pranzo con la più bella rompipalle che la vita mi abbia portato?". Nei momenti difficili c’era sempre, veniva a Parigi a vedere i miei spettacoli. Cenavamo e poi, prima del dolce, diceva "bon, ora ti parlo"».
Era amica anche di Mastroianni
«Ho amato la sua eleganza morale, la sua finta leggerezza, il passare le notti a bere, fumare, raccontarsi barzellette. Scola aveva un progetto per noi ma Marcello è morto troppo presto».
E poi Franco Zeffirelli
«Potrei parlarne per ore. L’ho amato, con quel suo fare da ragazzo insolente ma generoso, ironico, colto. Condividevamo l’amore per Callas. Il set con lui è stato uno dei più grandi momenti della mia vita d’attrice».