la Repubblica, 14 febbraio 2021
Stile Marlene Dietrich
Con un nome che, diceva Jean Cocteau, “inizia con una carezza e termina con una frustata” anche oggi, a 120 anni dalla sua nascita, Marlene Dietrich continua a essere una musa. Per Giorgio Armani, ad esempio, che ne ha fatto la sua donna ideale: «L’allure di Marlene rimane inconfondibile, incredibilmente poco datata. È stata rivoluzionaria: in un’epoca di femmes fatales bamboleggianti e iperfemminili, si è imposta con uno stile rigoroso, androgino, volitivo». In un momento in cui molto si parla di fluidità di genere, lo stile di Marlene non potrebbe essere più attuale. A dimostrarlo sono in parecchi. Da Max Mara a Louis Vuitton, da Saint Laurent fino a Fendi, che nella sua ultima sfilata di haute couture, la prima disegnata da Kim Jones, parte proprio da quel romanzo-manifesto del nomadismo tra i sessi che è Orlando (1928) di Virginia Woolf. Non per niente le note che accompagnano la sfilata sono precedute da una citazione del romanzo: “Anche se sembrano futili, i vestiti hanno un ruolo più importante di quello di tenerci al caldo. Cambiano la nostra visione del mondo e quella che il mondo ha di noi”.
Oggi a rievocare queste atmosfere ci sono personalità come Silvia Calderoni, protagonista della miniserie di Gucci Ouverture of Something That Never Ended (diretta da Gus Van Sant). E Harry Styles, la popstar britannica comparsa in giacca da smoking e lungo abito femminile (firmati Gucci) sulla copertina di dicembre di Vogue America. Styles non ha dubbi: «Quando mi trovo a guardare gli abiti delle donne penso che sono davvero fantastici», ha detto. E andare contro le convenzioni del proprio sesso piaceva a Marlene Dietrich, che nutriva una passione smodata per le mise maschili. Come dichiarò in un’intervista del 1933: “Gli abiti da donna portano via troppo tempo, c’è da sfinirsi quando si va a comprarli… poi gli stili cambiano e bisogna fare tutto da capo. Gli abiti maschili invece li posso portare quanto mi pare”.
Spregiudicata, bisessuale, simbolo antinazista, icona Lgbtq, complice un fascino magnetico, una voce ammaliante e uno spiccato senso dell’umorismo, Marlene Dietrich ha stregato milioni di uomini e di donne. Ernest Hemingway di lei disse: “Potrebbe spezzarti il cuore anche solo con la sua voce, ma ha quel bellissimo corpo e l’incanto senza tempo del suo viso. Non ha importanza il modo in cui ti spezza il cuore se poi è lì a riaggiustarlo”. Scoperta dal regista Josef von Sternberg, che la diresse nell’ Angelo azzurro (1930), Marlene entrò presto nell’Olimpo del cinema. Fu lui a trasformare la semplice ragazzotta tedesca in un ambiguo “angelo” seducente di celluloide. E sempre lui a farla approdare a Hollywood e a dirigerla in Marocco (1930) e nei suoi primi film alla Paramount.
In questa metamorfosi, oltre a uno spostamento di sopracciglia e a un prodigioso dimagrimento del volto ottenuto (pare) anche grazie all’estrazione dei molari, un grande ruolo ebbero Lee Garmes – direttore della fotografia che attraverso raffinati giochi di luce e ombra creò il classico volto dell’attrice – e Travis Banton. Capo-costumista della Paramount, Banton, oltre ai completi dall’allure maschile, creò per Marlene alcuni tra i più bei costumi della storia del cinema, come l’abito di Angelo (1937) paragonato a un gioiello di Fabergé e reclamizzato come il vestito più costoso della storia del cinema. Oggi, a quasi 30 anni dalla sua morte, Marlene, che amava dire di sé: “Non sono un’attrice ma una personalità. Mi vesto per l’immagine”, continua a incarnare uno stile unico, dove la femme fatale flirta con la garçonne.