Tuttolibri, 13 febbraio 2021
Affetti e sardità: il lato umano di Gramsci
Il centenario della nascita del PCI è stato salutato da una vasta bibliografia: molte memorie di militanti, pochi lavori di ricerca e di scavo archivistico. In questa folla di titoli si segnala la riproposizione della biografia di Gramsci scritta nel 1966 da Peppino Fiori e pubblicata ora con un’efficacissima introduzione di Alberto Asor Rosa. A questo libro risale il mio «innamoramento» giovanile per Gramsci. Allora, per la mia generazione, Gramsci era la base del «partito nuovo» voluto da Togliatti nel dopoguerra; era l’intellettuale della questione meridionale, il protagonista della lotta contro l’estremismo di Amedeo Bordiga, il teorico dell’«egemonia» ( non ci poteva essere il socialismo senza il consenso), lo studioso del capitalismo americano. Era sopratutto una vittima della repressione fascista, un gigante del pensiero che Mussolini aveva stroncato con la violenza del carcere. Era, per dirla con un’espressione efficace di Fiori, «una testa senza busto e senza gambe». Quel libro diede un corpo a quella testa, integrò i tratti monumentali del «pensatore» con quelli fragili e colmi di incertezze dell’individuo e così finì per avvicinarlo a tutti noi, aiutandoci a conoscerlo più in profondità.
A oltre 50 anni di distanza quel ritratto ha ancora tutto il suo fascino. La lotta interna al PSI contro Serrati, Lazzari, Turati; la splendida avventura dell’«Ordine Nuovo»; il dissidio con Bordiga nel PCI appena nato; la faticosa elaborazione delle innovative tesi di Lione; i contrasti con Togliatti e i colpi bassi di Grieco: tutto quello che per anni ha appassionato gli studiosi della storia del PCI e del pensiero gramsciano ci appare oggi remoto, confinato negli anni centrali del Novecento e indissolubilmente legato allo spirito di quel tempo. La marea del post Novecento ha travolto quegli eventi, trasformandoli in detriti spiaggiati: quasi tutti, tranne Gramsci e, in particolare, quello raccontato da Peppino Fiori. Sospeso tra le urgenze dettate dalla dimensione totale della militanza politica, la necessità di tenere vive le sue radici sarde, le inclinazioni sentimentali per l’amore coniugale (con Giulia Schucht) e il tepore degli affetti familiari (dal matrimonio ebbe due figli), la sua figura smarrisce i tratti del «martire» e del «pensatore» per apparire ricco di contraddizioni, reso fragile da una salute precaria (era piccolissimo di statura, deformato dalle gobbe) e da profonde inquietudini personali. E questo Gramsci dal volto umano non perde niente della sua grandezza intellettuale.
Anzi è come se l’intreccio tra il suo percorso esistenziale e la sua militanza politica arricchisca il personaggio su entrambi i fronti. Così, ad esempio, il sardismo («bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione») dei suoi anni giovanili, non è solo un elemento che ne evidenzia le radici culturali (la sardità), ma anche una chiave preziosa per decifrane l’ approdo al socialismo (tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916) e l’originalità del suo pensiero più maturo. Più che le formulazioni teoriche del marxismo («le superstizioni scientifiche dei positivisti»), a far scattare la scintilla dell’impegno furono i minatori del Sulcis Iglesiente, i contadini e i pastori delle sue campagne, i ristretti nuclei operai di Cagliari, con le loro lotte, le loro rivendicazioni scaturite direttamente da una condizione materiale ai limiti della sopravvivenza. Il trasferimento a Torino (nel 1911) come studente universitario fece il resto. Nascere in provincia per avere salde le proprie radici, poi trasferirsi in città per non restare confinato nelle ristrettezze anche culturali delle periferie: questa traiettoria tipica degli intellettuali italiani, Gramsci la percorse fino in fondo. E a Torino conobbe gli operai della Fiat: non più lo spontaneismo delle lotte contadine, ma la ferma consapevolezza di chi sapeva coniugare le rivendicazioni salariali con le richieste di potere rispetto all’organizzazione del lavoro. La stagione dei «consigli» si concluse con una sonora sconfitta dopo l’«occupazione delle fabbriche» nel settembre del 1920. La sconfitta genera disorientamento, recriminazioni, dissidi, rancori settari che paralizzano ogni azione. Quella subita dal movimento operaio ad opera del fascismo nascente fu catastrofica per tutti i vecchi dirigenti del partito socialista e i nuovi leader del PCI: per tutti, non per Gramsci: tra le macerie della disfatta riuscì a individuare la strada per il futuro, immaginando un comunismo in cui i comunisti sarebbero stati migliori dell’ideologia in cui credevano. La linea ufficiale del partito subiva contorsioni da emicrania: prima il fronte unico con l’alleanza con i socialisti, poi lo scontro «classe contro classe» e la lotta contro il socialfascimo, poi il ritorno alle alleanze con la stagione dei fronti popolari, etc..
Tutte queste convulsioni trovarono Gramsci in carcere. Era stato arrestato l’8 novembre 1927. E in carcere morì il 29 aprile 1937 a soli 46 anni. Ci lasciò 32 quaderni con i suoi pensieri, elaborati tra le sofferenze e soprusi di una prigione spietata. E per questo di una forza teorica immensa.