Tuttolibri, 13 febbraio 2021
1QQAF10 Maria Grazia Calandrone e la mamma adottiva
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È un’immagine che apre il libro della poetessa Maria Grazia Calandrone: Splendi come vita. Un trafiletto di giornale che racconta di una bambina, abbandonata su un prato a Villa Borghese, prima che sua madre si lanciasse nel Tevere, trovando la morte. È lei quella bambina, Maria Grazia. A corredare l’articolo, c’è una foto. Una donna bionda e sorridente che sorregge per le braccine una piccola. L’articolo titola: «Ora non è più abbandonata». A soli otto mesi di vita, viene data in adozione ai coniugi Calandrone. La nuova madre, la professoressa Iode è «bionda, bella, lucida, normanna e stalinista» – e per Maria Grazia, è l’unica madre. E tale resta, anche quando quattro anni più tardi, la donna le confessa di averla adottata. La notizia non la tocca, non la colpisce, non ribalta la realtà: per Maria Grazia quella è la sua mamma. L’unica, la sola, la vita. Quell’ammissione non era meditata, anzi, nasceva dalla paura. La signora Calandrone aveva letto, la storia di una diciottenne in procinto di sposarsi che casualmente aveva scoperto di essere stata adottata, e ecco che la ragazza si era tolta la vita. È di nuovo un suicidio a smuovere le acque. La seconda morte di questa storia. Così spaventosa per Iode che decide di mettere le cose in chiaro con Maria Grazia, da subito. Eppure la «Verità, rivelata da Madre, aveva avuto l’effetto paradosso di rendere lei Finta, sebbene ai propri soli occhi». Quell’ammissione rappresenta una frattura, da quel giorno qualcosa si incrina, si rompe. Non per la figlia, per la madre.
La storia si srotola, il libro racconta una relazione lunga una vita. Un corpo a corpo tra due donne che scivola nel tempo e subisce gli eventi. Il libro è diviso in parti, capitoli che condensano gli anni, rievocano un’epoca. C’è prima il racconto del padre, Giacomo, che da operaio metallurgico a Savona passa ad essere «dirigente del Partito Comunista Italiano in Sicilia, sedendo per dieci anni alla Camera, grazie alla forza del suo ingegno e, soprattutto, del suo grande slancio». Figura mitica, fascinoso come Gian Maria Volonté, viaggiatore, è colui che porta il mondo nella vita di Maria Grazia; e insieme gliela sottrae, perché muore e trascina con sé, l’equilibrio psichico della sua sposa. Madre, così la chiama la scrittrice, fino a un interludio in cui torna ad essere Mamma. Sono gli anni dell’incanto, quelli dell’infanzia in cui la figura materna rappresenta solo desinenze positive: aria, sogno, bellezza. Un universo di vita quotidiana, gesti piccoli eppure immensi che descrivono la fascinazione, la gioia, lo sguardo splendente della figlia. «Quando, alla sera, Mamma e io ci laviamo i denti fra quelle figure inventate, messe ad asciugare lungo i bordi della vasca da bagno, Mamma è una polveriera che ogni tanto brilla, al centro di una psiche infantile che si è fatta materia. È un’esposizione fiduciosa e calma. La clessidra del dentifricio Actifluor segna un tempo che non finisce mai».
L’infanzia si esaurisce coincidendo con la morte del padre, Maria Grazia ha 11 anni, quando la meraviglia svanisce e sua madre va in pezzi. Dismette i panni della fanciulla, si veste da maschio, cresce nella capitale, tra le note di Umberto Tozzi e quelle dei Pink Floyd, gli anni ottanta incombono: «Nelle notti d’estate, Roma è piena di gente stravagante, bellissima e triste. Piume, scacchi, colori, anfibi rosa shocking, lamé a rigoni, creste. Un Carnevale di gente coi capelli gonfi, che cerca la gioia e si vuole divertire. Tra essi, cerco un posto per dormire». E diventa donna. Conquista un posto nella vita, con una determinazione graffiante, la stessa con la quale ama sua madre, che finisce per rifuggirla, rinnegarla, insultarla, ingabbiata nella cecità, nella follia, nell’abisso.
Maria Grazia trova un centro. Prima nel disegno, poi nella poesia. Quella che sostiene quest’autobiografia, poiché Splendi come vita, è architettato da una lingua che non si può chiamare semplicemente prosa. È un inanellamento di parole che costituiscono una narrazione potentissima, per la struggente storia che raccontano ma anche per l’uso che Calandrone fa della lingua. Un susseguirsi di immagini catartiche sostenute da un io narrante preciso, inderogabile, assoluto. Fino alla distanza finale che la figlia conquista aprendo gli occhi sulla madre, permettendole attraverso la lente del tempo, di vedere la donna, una donna, depotenziata dal suo ruolo materno e per questo immensamente più umana. Splendi come vita, è la narrazione di una ferita, una frattura, una perdita, un segmento d’Italia, «un’elegia», un fatto di cronaca, un rapporto durissimo. Una pugnalata. Un gioiello. Una grandiosa lettera d’amore: «Ti accompagno a parole, perché a parole sono nata da te».