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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

6QQAFZ10 Intervista a Annie Ernaux

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Annie Ernaux vive a Cergy, un comune a 40 chilometri dal centro di Parigi sulla RER A, e il suo giardino dà direttamente sull’Oise, un fiume ritratto più volte da Van Gogh le cui spoglie, tra l’altro, sono sepolte nei dintorni. In Italia è appena uscito il suo libro numero otto pubblicato dall’editore L’orma e tradotto sempre magistralmente da Lorenzo Flabbi. In La donna gelata, Ernaux racconta il proprio percorso di consapevolezza del crescere femmina tra gli anni ’50 e ’70: l’infanzia, oasi felice tra due genitori fuori dalle regole; l’adolescenza, il primo giardino dove cresce la vergogna (del proprio corpo, delle origini); lo studio, spazio assoluto di libertà; il matrimonio, dove per molte suonava proprio il requiem.
A sorprendermi, ogni volta che sento Ernaux, è la voce: nonostante abbia compiuto 80 anni lo scorso settembre, potrebbe essere scambiata per quella di una ragazza. Mi dice che ha appena fatto la prima dose di vaccino anti-Covid («è stato piuttosto difficile prendere un appuntamento») e che spera, nel giro di un mese e mezzo, di potere uscire un po’ più spesso.
Ernaux, come giudica l’operato di Macron in questo anno di pandemia?
«Molto infantilizzante. Voglio dire: quello che ha fatto è stato abbastanza buono, ma non ha mai preso in considerazione di coinvolgere i cittadini. Sempre e soltanto decisioni prese dalla sera alla mattina dal signor presidente. È insopportabile essere trattati come bambini a cui si dice: "Fate questo, fate quello". Lo trovo inquietante, soprattutto per il futuro».
Qual è la cosa che le manca di più della vita di prima?
«Parigi. È un anno che non ci vado».
"La donna gelata" inizia con lei che ricorda gli anni selvaggi della sua infanzia. Le mancano?
«No, ma sono contenta di avere avuto un’infanzia così, estremamente libera tranne che per il tabù supremo per ogni femmina di allora: il sesso. Le madri vivevano nella paura che le proprie figlie facessero qualcosa di sbagliato. Per il resto, è stata un’infanzia che mi ha permesso di lottare per la mia emancipazione e, in definitiva, di scrivere questo libro, che venne accolto molto male sia dalla mia famiglia che da mio marito. Dal quale, peraltro, dopo poco mi separai».
Però, "La donna gelata" lo aveva dedicato proprio a lui: "A Philippe".
«Era il mio modo di dirgli: bisogna che tu capisca perché ho scritto queste cose, perché mi sento lasciata sola a occuparmi della casa e dei figli. Speravo sarebbe stata una presa di coscienza anche per lui».
Qual è lo stereotipo più difficile da superare per una donna?
«Ne abbiamo molti, ma credo che il più grande sia la sottomissione. Il fatto che siamo troppo gentili con gli uomini, li perdoniamo e accettiamo tutto nonostante loro non facciano altrettanto nei nostri confronti».
Più volte ha detto che la decisione di non risposarsi più le ha dato una grande libertà. Se ne è mai pentita? Per la solitudine, intendo.
«No, e per vari motivi: i figli, che non ti fanno sentire mai sola, la scrittura, che mi prende la vita, e poi perché, diciamo fino ai 70 anni, degli uomini ci sono stati. Ma non ho mai più voluto dipendere da loro in nessun modo, non ho mai più convissuto».
È vero che il momento più bello per lei è stato tra i 45 e i 60 anni?
«Sì. Semplicemente perché sono stata molto felice, cioè indipendente, per me la cosa più importante. Il mondo era infinitamente aperto, ancora più che durante l’adolescenza. E poi mi sentivo anche bene fisicamente».
Ha scritto che, per una donna, non c’è niente di più potente dello sguardo degli altri. Lo pensa ancora?
«Questo è tuttora un grosso problema della nostra società: le donne continuano a essere guardate, a essere oggetto di giudizio. Con il MeToo, poi, c’è stato il risveglio dei controllori. La libertà delle donne è ancora sorvegliata. Sugli uomini si ha uno sguardo totalmente diverso».
C’è chi sostiene che l’impatto de "La donna gelata" sia paragonabile a quello che i libri di Simone de Beauvoir ebbero sulle donne della sua generazione. È d’accordo?
«Al contrario del Secondo sesso, che arrivò nelle mani delle donne che avrebbero fatto il ’68, La donna gelata uscì, diciamo, nel momento sbagliato: era il 1981, gli anni Settanta erano finiti e si stava entrando in un decennio che voleva che le donne fossero delle seduttrici, dove si credeva che il femminismo fosse finito. Una situazione che, a dire il vero, è durata fino ai primi anni Duemila. In realtà, non so bene quale sia il ruolo dei miei libri: so solo di avere molte lettrici e che i miei testi vengono dati in lettura agli studenti delle superiori».
La sua scrittura è intrinsecamente legata alla sociologia. Ricorda come nacque questo amore?
«Era il 1971, io insegnavo ancora, e fra noi professori giravano alcuni libri che parlavano della scuola. Tra questi ce ne furono due, Les héritiers e La reproduction di Pierre Bourdieue, che mi cambiarono la vita. Mi resi conto, infatti, che provenendo dal popolo ed essendo stata una borsista, non facevo parte dei cosiddetti "eredi" delle élite che, a scuola, riuscivano ad appropriarsi con facilità di quella che era la cultura "generale". Questa presa di coscienza fu molto importante per me e mi spinse a scrivere il mio primo libro, Gli armadi vuoti. La sociologia mi ha dato un’altra coscienza di me stessa».
Nella conversazione con Pierre Bras pubblicata da Castelvecchi con il titolo "Scrivere è dare una forma al desiderio", lei dice di volere "restituire a ciascuno, in letteratura, il posto che ha nella vita".
«Esatto. Le faccio un esempio: se dovessi parlare delle persone che chiedono l’elemosina nel metrò, non sceglierei mai una forma "pittoresca" e nemmeno le "parole del cuore", ma cercherei di vederne la vera dimensione, il tragitto sociale che le ha portate lì. È la stessa cosa che faccio quando parlo delle donne. Si tratta sempre di fare entrare il reale».
Ultimamente i giornali francesi hanno dato ampio spazio all’affaire Duhamel, il potente politolgo accusato dalla figlia adottiva Caroline Kouchner di avere abusato del fratello quando questi era un ragazzino. Pensa che questo scandalo, assieme al caso Matzneff (sempre pedofilia) e alle accuse di molestie sessuali rivolte a un regista dall’attrice Adèle Haenel, possa essere collocato sull’onda lunga del MeToo?
«Il 2017, l’anno del MeToo, è una data memorabile. Da allora si avverte il desiderio che le cose cambino, e la dominazione sessuale di qualunque tipo non è più accettata. Dominazione che, nei casi che lei ha nominato, è sempre maschile, sia nei confronti di donne che di adolescenti. Oggi tutto questo non è più tollerabile, e mi auguro che questa ondata non si spenga e abbia anzi gettato radici profonde».
Che cosa la spaventa di più?
«Il riscaldamento globale, il fatto che i governi non stiano prendendo nessun provvedimento e il timore che la fine di questo secolo possa essere orribile. A inquietarmi è anche il fatto che alcune popolazioni occidentali si stiano indirizzando verso un altro modo di essere governate. Cosa succederà in Francia, in Italia? La società è imprevedibile. E anche gli Stati Uniti: non dimentichiamo i milioni di persone che hanno comunque rivotato Trump».
Un libro che ha letto recentemente e le è piaciuto molto?
«Cinque mans coupées di Sophie Divry, un racconto collettivo dove a parlare sono cinque gilet gialli che, negli assalti della polizia in manifestazione, persero tutti una mano, la destra. È un libro impressionate, davvero molto bello».
Una curiosità: ha l’abitudine di rileggere i suoi libri?
«Non dall’inizio alla fine. La donna gelata, per esempio, non lo rileggo da trent’anni. Certo, a volte ne riprendo alcuni passaggi, e ogni tanto mi sorprendono perché non ricordavo di averli scritti».
Mi sa dire qual è il contrario di una "donna gelata"?
«Una donna intera. Non amo molto l’espressione "liberata"».