La Stampa, 14 febbraio 2021
L’avvocato del popolo torna cittadino
Il modesto onore delle armi a Giuseppe Conte è l’applauso dei dipendenti di Palazzo Chigi affacciati alle finestre, che sgomitano per conquistare la visione migliore sul rito del cambio della guardia. L’Avvocato del popolo esce di scena così, più simile a un capufficio in cammino verso la pensione che a un ex leader gratificato fino a poco fa dal favoloso 56 per cento dei consensi. La rapida cerimonia degli addii, causa Covid trasferita in esterno, senza pubblico, senza strette di mano, senza curiosi assiepati sul piazzale, è assolutamente istituzionale, gelida nella sua formalità, e forse è un bene: consente al premier uscente di recuperare lo standing del debutto, prima dei banchetti e delle conferenze stampa per strada, quando era l’unico con un vestito decente e pose da adulto in un contesto di matti con le felpe, le t-shirt No-Trivelle, le criniere rivoluzionarie e i crocifissi in tasca come amuleti.
Il modesto onore delle armi sono, anche, i duecentomila like e le settantamila condivisioni del post con cui l’ex presidente del Consiglio saluta gli italiani dicendo «Torno a vestire i panni di semplice cittadino», mesto messaggio che marca la delusione per il declino di ogni suo progetto, farsi capo del M5S, candidato premier della coalizione giallorossa in caso di elezioni, titolare di una forza politica tutta sua, o addirittura presidente della Repubblica. Al contrario, Conte è il primo nella storia italiana a scendere dal trono del governo senza un partito dove rifugiarsi e provare a ricominciare, senza una famiglia politica che lo coccoli un po’. Mentre varca il portone esterno di Palazzo Chigi, cercando la mano della compagna Olivia Paladino, non è un leader sconfitto che ragiona sulla prossima battaglia, ma semplicemente un uomo che, dopo una gran disgrazia, scopre di avere dalla sua parte solo la fidanzata.
Il modesto onore delle armi sono, infine, gli occhi lucidi del portavoce Rocco Casalino, che una volta tanto non è in prima fila ma sembra quasi nascosto tra la piccola folla che attende il rito della campanella. Lo trovano gli operatori tv, cercano il primissimo piano, malgrado la mascherina la commozione è evidente, e anche questo è uno spettacolo inedito nello show del potere italiano dove i sentimenti della sconfitta sono piuttosto il gelido rancore (lo scambio di consegne tra Enrico Letta e Matteo Renzi, ricordate?), perfino il disprezzo, ma mai si era vista l’ombra di una lacrima. Perché è così turbato Casalino? È dispiacere per la fine di una grande storia di cui era stato lo sceneggiatore o umanissima rabbia? Non lo sapremo mai (lui dice che era l’emozione degli applausi, ma vai a vedere).
I leader italiani sono finiti in molti modi, alcuni dei quali impietosi, braccati dalla magistratura (Bettino Craxi), salutati da rumorosi sabba collettivi (Silvio Berlusconi), additati come nemici del popolo dagli stessi che li avevano sostenuti (Mario Monti), irrisi e sostituiti dai loro capi partito (Enrico Letta), decapitati da clamorose sconfitte (Matteo Renzi), e sono stati tutti momenti altamente divisivi, dove i cuori e le parole si sono scaldati fino a diventare roventi. Per Giuseppe Conte, niente. Sembra già dimenticato dagli amici e dagli avversari, già consegnato alle cronache minori del Paese come se il suo biennio alla presidenza del Consiglio non fosse esistito (o suscitasse quel tipo di vergogna che fa preferire l’oblio). La sua vecchia maggioranza si ricorda dei doveri minimi dell’educazione solo a metà pomeriggio, ore dopo il passaggio delle consegne col nuovo premier, e detta comunicati distratti per i social. Sei righe per Di Maio, tre per Goffredo Bettini, Nicola Zingaretti non pervenuto fino a sera.
Dall’«O Conte o morte» al «Conte chi?» sono passati solo dieci giorni, ma soprattutto è passato Mario Draghi. Il suo status internazionale, il suo governo di tutti, le capriole a cui ha obbligato ogni partito, rendono la stagione contiana un evento da rimuovere, come certe adolescenze imbarazzanti. È per questo che l’omaggio degli ex alleati non arriva, nessuno ha voglia di ricordare gli anni in cui Conte fu scelto come volto presentabile della più bizzarra coalizione governativa mai vista in Italia, quando Di Maio gridava dal palco della Bocca della Verità «Lo Stato siamo noi» e Matteo Salvini entrava al Viminale con la faccia del «niente prigionieri». Ed è meglio seppellire anche la fase successiva, quella del post Papeete, con Nicola Zingaretti che consegnava il Pd a Giuseppe accreditandolo come «punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste».
Ecco perché Conte si deve far bastare gli applausi degli impiegati, i like sui social e le lacrime di Casalino come tributo alla sua uscita di scena. Un diverso onore delle armi, più politico, avrebbe tra l’altro comportato per M5S e Pd il riconoscimento di una qualche dignità all’esperienza del suo doppio premierato, mentre il tentativo pare l’opposto: trasformarlo in capro espiatorio di ogni cosa che non ha funzionato nel Paese. L’approccio alla pandemia, il pessimo Recovery Plan, le esibizioni vanitose degli Stati Generali, il Piano Colao (che ora è ministro) buttato nel cestino, ogni stupidaggine dell’emergenza Covid dai banchi a rotelle ai gazebo-primula: ecco, ora ciascuno di quei fallimenti e di quegli inutili show può essere messo in carico all’Avvocato del popolo e a lui solo, figuriamoci se gli fanno il presentat’arm.