Corriere della Sera, 14 febbraio 2021
Arbasino, l’uomo che guardava
Aveva detto che non avrebbe voluto ripubblicare Grazie per le magnifiche rose definendolo «un volume tipicamente “epocale”». Ricordò che «l’Indice dei nomi principali» che chiudeva l’edizione Feltrinelli del novembre 1965 ne includeva centinaia: «E la maggior parte è scomparsa dalla memoria anche coltissima». Ma Alberto Arbasino sbagliava. E ha fatto benissimo Adelphi a riproporre una scelta del vecchio «romanzo critico» che contava 525 fittissime pagine di «testimonianze di spettacoli innegabilmente avvenuti, su una scena o nelle sue vicinanze».
Niente «teorizzazioni ipotetiche», precisava Arbasino nella quarta di copertina. Reportage d’epoca, romanzo critico, appunto, narrazione saggistica e anche parodistica. E come tale va letta questa nuova edizione postuma, ma anche come romanzo sociale, magari gustando il particolare sapore di quelle che l’autore chiamava le «vicinanze» della scena. Ora che il volume è ridotto a una decina di «pezzi», è persino più facile apprezzare le qualità dell’osservatore e del narratore acuto, ironico, a tratti comico, a tratti cervellotico, del costume nel suo farsi. È quello che ci manca di Arbasino, morto quasi un anno fa (il 22 marzo 2020), ma assente dalla scena dei giornali ormai da diversi anni per la lunga malattia senile, lui che senile non era mai stato, essendo sempre rimasto all’avanguardia, anche da ottantenne, curioso, caustico, divertito. Un «gran conversatore scritto» che, come scrisse Giorgio Manganelli, sapeva essere aggressivo, mai litigioso. Polemico e insolente sì, mai manesco.
Provate a leggere questa raccolta, accettando il patto della contaminazione forsennata, e troverete tutto Arbasino. Il viaggiatore instancabile, quando pochi viaggiavano. Che si trova a New York o a Londra o a Monaco o a Bayreuth con la stessa verve con cui si muove a Roma nella primavera del 1959. Quando si prende una settimana per «rastrellare le platee della Capitale, una o due per sera…» e riferirne sul «Mondo». Un setacciamento a tappeto da cui emerge il vivo «spaccato» (Arbasino dixit) di una dolce vita sotto le luci del teatro. Basta riprendere certe liste messe sulla pagina dall’autore, amante degli elenchi per accumulo, che partendo da un dramma in calendario al Teatro delle Arti, Le ragazze bruciate verdi, racconta come la «cruda denuncia» su temi di scottante attualità possa produrre un involontario fou-rire: «Dentro c’era tutto il dopoguerra, la periferia, gli interni popolari, la biancheria sporca, il caso Montesi, gli obiettori di coscienza, gli epurati, la cocaina, le canzoni di Sanremo, gli esistenzialisti, i teddy-boys, la polizia, le case d’appuntamento clandestine, un finto ricco uguale a tutte le creaturine che calano ogni domenica a Milano da Gallarate per applaudire la Wanda Osiris “al Liric in pé” col loro pulloverino bianco buttato sulle spalle a scialletto». La commedia, ghigna Arbasino, è impostata sul tema: «Non bisogna lasciarle venire da sole a Roma, città tentacolare e vernacolare, e soprattutto escano da sole il meno possibile, se volete che sposino un buon impiegato», e giù ancora un elenco di «culone» in sottoveste che telefonano stando a letto e fanno l’amore sul tavolo («e mi pare anche sul ferro da stiro»)…
Certamente meglio il cabaret di Arbasino, il suo «ilare furore», che qualsiasi altro spettacolo offerto dalla scena romana. Meglio che sorbirsi la matinée familiare al Quirino con Madame Sans-Gêne, commedia storica di Sardou, è leggersi il resoconto arbasiniano: «Un ciambellano lezioso con un assurdo accento e una parrucca solida come un Saint-Honoré, da prendersi così com’era, dicevano gli spiritosi, e portarselo a casa, solo se si possedesse un terrazzo o un giardino…», e poi ecco l’affollarsi sulla scena di duchesse, principesse, ecco «una checcona vestita da donna» e certe «bambinacce... tutte con tiare e collaretti, con fiocchettini giù dai petti, con bordure di pellicce un po’ russe e con diademi di strass un po’ bassi: tutto un garbo, un porgere, un sedere di sbieco e un inchinarsi di tre quarti, tutto un gorgheggiare di traverso». E gli uomini? Spiccano non tanto per la recitazione quanto per gli oggetti introdotti nei calzoni attillati allo scopo di evidenziare la propria presunta virilità: «Chi aveva messo panini, chi brioches, chi lenzuola annodate, chi infine la cornetta del telefono…».
Non si finirebbe di aprire le virgolette. Ma l’apice, nella settimana romana, arriva con la protesta al Teatro Valle contro La Romagnola, colossale kermesse resistenziale di Squarzina contestata dai fascisti con lancio di ortaggi, di uova marce, di merde e di manifestini non solo sugli interpreti ma anche sul prestigioso pubblico plaudente e sui «padri della patria seduti in prima fila, donne “importanti” con i cappellini a medusa o anemone di mare». E si intravedono anche la Magnani, la Bosè, la Franca Valeri, la Nora Ricci, la Lilla Brignone (tutte con articolo), oltre alla folla di «vedove abusive, fidanzati posticci, accompagnatrici di parata, giovanotti intrattenuti da nobildonne in scarpina di strass e calza a rete per dissimular l’edema alla caviglia, ricattatrici famosissime…».
Giuliano Gramigna parlò della scrittura di Arbasino come di un «tapis roulant con frenetico movimento capricciosamente variato». Il tapis roulant è un’immagine molto efficace per queste cronache che ruotano e ruotando macinano di tutto. Quando, nell’autunno 1959, l’onnivoro spettatore si ritrova nel Theatreland newyorkese, ne approfitta per dire la sua sulla critica italiana e sembra che parli di oggi: «Non già giudizio ma riassuntino; mai un “benissimo” o un “malissimo” o comunque uno Sbilanciarsi: sempre un mite, indifferente “benino”». Per un mese, il programma è quello di buttarsi e di seguire a tappeto (roulant) tutti gli spettacoli: «I belli, i brutti, i mediocri, gli orribili. Baracconate, porcate: prima vedere, poi parlare».
Prima vedere e poi parlare delle ricette di successo del momento: nel teatro serio vanno molto «i gravissimi problemi sessual-tormentosi di anime perse in un Vecchio Sud...». Molto vanno anche le biografie romanzate o in musica di personaggi insignificanti: «La sordomuta-prodigio, l’ex sindaco eupeptico, il complesso vocale che si distingue dal Quartetto Cetra in virtù di un repertorio più severo, e di passate persecuzioni naziste». Sono fulminee le analogie a distanza: può capitare che «lo spettacolo più noioso che si sia mai visto» richiami Pirandello o i Miserabili, e può capitare che una commedia «scritta e interpretata da negri, con propositi di realismo ottimistico e sentimentale», esemplare di quel teatro «carico d’umanità», evochi Eduardo De Filippo... Il cuore di Arbasino non batte per il «teatro carico di umanità» e nemmeno per i drammaturghi di grido, tanto meno per gli scrittori professionisti, ma per il musical, ed eccolo stravedere per Gypsy, vero Bildungsroman moderno capace di autentici «colpi gobbi poetici», e per West Side Story. Lì non risparmia i superlativi: stupendo, magnetico, «di una bellezza da far urlare dall’entusiasmo come l’Opera italiana del primo Ottocento». Mentre altri sono routine: uno falso-ingenuo, uno addirittura una vergogna, uno stupidissimo, uno un po’ ordinario, con «le cosine giuste» ma niente di più. E si può andare tranquillamente avanti nel divertimento. Per esempio sfogliando le pagine «inglesi» sul teatro scespiriano attualizzante «all’insegna del “rinfreschiamo il vecchio Bardo”». Oppure lo scintillante capitolo sul Festival di Salisburgo 1965, in cui Gadda, Broch, Musil, Fellini, Flaiano, Hitchcock, Gino Paoli e don Abbondio impazzano sul Boris Godunov diretto da un Karajan che sembra «preso da raptus hollywoodiano». «Fuori, botte di freddo spaventose», tremola Arbasino... Non è escluso che ogni tanto rimpianga Voghera.
In una lettera a Giovanni Testori, Arbasino scrisse: «Caro Testori, “dimenticare Voghera?” Non è umanamente possibile, direbbe Gadda». Lo ricorda un bel libro pubblicato dalla Libreria Ticinum di Voghera (Passeggiando con Alberto Arbasino). Dove si evoca quanto la scrittura pirotecnica dell’amico Nino (così Alberto veniva chiamato da ragazzo) debba alla provincia. Lì frequentava Franco Antonicelli, il vicino di casa che pubblicò per la prima volta in Italia Melville, Kafka e Joyce. Lì, al circolo Il Ritrovo, incontrava la bibliotecaria Ernesta Marangoni Pelizza, amica di Einstein, e poteva leggere i libri proibiti dal fascismo. Lì pubblicò sulla rivista «Capricorno», da ragazzo, una sua Traviata che mescolava il testo di Piave con l’elenco telefonico di Voghera.