Robinson, 13 febbraio 2021
Una lunga intervista a Carlo Verdone
È un uomo fondamentalmente mite e gentile Carlo Verdone. Non ha rancori sopiti pronti a risvegliarsi né vendette da consumare. Di Roma, dove è nato settant’anni fa, ha assorbito il carattere morbido di una città che ha visto tutto e tutto conosciuto. Ma non ne ama certi effetti: il fatalismo e l’indolenza, soprattutto. Una sottile vena nevrotica, che talvolta ha trasmesso ai suoi memorabili personaggi, attraversa i pensieri. Non sono mareggiate psichiche ma piccole increspature ansiose che il vento della pandemia ha portato in superficie. Leggo il suo nuovo libro La carezza della memoria (edito da Bompiani, in libreria dal 16 febbraio) e mi rendo conto che la vita di Carlo Verdone è un andirivieni tra la timidezza dei gesti (perfino l’impaccio) e la libertà estrosa di saper mettere a frutto l’indiscutibile talento. Che non è tanto o solo quello di far ridere (certo, che sarebbe senza Un sacco bello e altri strepitosi successi?) ma di dare un corpo e un’anima alla sua malinconia, di vestirla di quei fragili sogni che solo il cinema aiuta a realizzare. Verdone è anche un uomo inquieto, me ne rendo conto fin dalle prime pagine del libro. Un inizio travolgente: un uomo, affacciato dalla sua terrazza romana, ormai preda dell’insonnia.
Comincerei dall’insonnia, se sei d’accordo.
«Mi è accaduto in questi mesi di svegliarmi in piena notte e di non riuscire a riprendere sonno. Giravo un po’ per casa e alla fine dalla terrazza vedevo una Roma talmente buia da apparirmi irreale e cupa. E pensavo a quanto poco mi riconoscessi nelle affermazioni estatiche di coloro che nel deserto della città hanno colto l’irresistibile bellezza del vuoto».
Non è un po’ così?
Quando vedo Roma, Firenze o Venezia postate in certe foto, penso a immagini in cui la vita ha smesso di scorrere. Tu accennavi all’insonnia. Ne ho sofferto in passato. Ma da molto tempo, la sera vado a letto tranquillo e penso che qualcosa è cambiato in me».
Cosa esattamente?
«Ho l’impressione di essere più maturo, diciamo pure più in sintonia con i miei settant’anni. Anche le emozioni, che una volta erano violente, sono meno forti. Provo ancora un certo stupore. Ma attenuato, come se alla fine la ragione prevalesse sul tumulto delle passioni. La mia vita è stata a lungo una lotta emotiva.
Al liceo ero timidissimo, bastava un’interrogazione di matematica per gettarmi nell’ansia. Un panico cui seguivano scatti di euforia, durante i quali facevo divertire chi mi era accanto. Ero il dottor Jekyll e Mister Hyde».
Questa doppiezza ha aiutato la tua arte?
«Penso abbia contribuito a sviluppare la comicità. Tutti i grandi comici sono come prigionieri di una doppia vita. Senza dovermi paragonare a nessuno, Totò e Sordi nel mondo privato erano l’opposto dei loro spettacoli».
A proposito di comici viene in mente una bellissima foto, che c’è nel libro, dove sei insieme a Nuti e Troisi.
Qualcosa di irripetibile.
«Fammi dire che il libro – La carezza della memoria – è scandito da una serie di foto che ho ritrovato un po’ casualmente dentro uno scatolone, ed è stato come tornare a una serie di episodi della mia vita che avevo rimosso. La foto di me, Troisi e Nuti la scattò Alberto Sordi, in occasione delle “Grolle d’oro”. Quel trio per me rappresentava una nuova pagina della commedia all’italiana».
Nuova perché?
«Pensa al terzetto Sordi, Tognazzi, Gassman. Sono stati i re della risata. Nel nostro caso invece abbiamo rappresentato tre personaggi, sicuramente divertenti, ma soprattutto fragili».
Voi non avete mai lavorato assieme?
«No, o meglio con Nuti dovevamo fare Cuori nella tormenta. A 20 giorni dall’inizio del film Francesco sparì. Lasciandomi in braghe di tela».
Come reagisti?
«All’inizio incazzandomi per quella decisione incomprensibile. Ma non so portare rancore e alla fine ho pensato: vabbè, è chiaro che Nuti ama recitare da solista».
Eravate amici?
«Lo sono stato più di Massimo che di Francesco.
C’eravamo conosciuti a Torino nei tre mesi in cui abbiamo preparato con Enzo Trapani il programma televisivo “Non stop” che poi avrebbe decretato l’inizio del mio successo. Ricordo che un giorno cercavano Nuti che doveva registrare e non si trovava. Lo scovai nel bagno seduto sulla tazza con Tex le mani».
E che accadde?
France’, gli dissi, avevamo un appuntamento – ti ricordi? Dovevi ascoltare un mio sketch – e poi ti stanno cercando, devi registrare. Sì, sì, ma chiudi la porta, che mi girano i coglioni! Era imprevedibile. Incapace di godere del suo talento».
Diverso da Troisi?
Massimo era fatto di un’altra pasta. Con addosso fragilità diverse. Sei giorni su sette restava chiuso in casa. Ero l’unico, credo, che a forza riusciva a portarlo al cinema. Rigorosamente alle tre del pomeriggio.
Quando le sale erano vuote. Aveva il terrore della gente che gli veniva addosso per gli autografi. La vita è stata diseguale per noi tre. E mi addolora sapere che Massimo non c’è più e Francesco è come se non ci fosse».
A proposito di vite diseguali, tu racconti il tuo innamoramento per una prostituta.
«Maria F., una prostituta con il volto della ragazza accanto. Un mio amico mi portò in una casa di appuntamenti. Mi sentivo a disagio e poi improvvisamente spuntò lei, con un’aria bella e pulita.
Volevo scappare e invece mi trattenni a parlare con lei.
Non facemmo nulla. Dopo un po’ mi raccontò che aveva una figlia e che abitava in un paesino fuori Roma. Si prostituiva in una casa, nel quartiere Monti. Uscendo ci scambiammo i telefoni».
Vi sentiste?
«Sì, mi disse che non conosceva Roma e la portai al Gianicolo e poi a piazza Navona. Era stupita e felice, come una bambina sull’ottovolante. L’ultima volta che la vidi mi disse: “Carlo, ma che stamo a fa’? Ricordati dove se semo conosciuti”. Non l’ho più sentita. E mi mancava. Anni dopo telefonò a casa una certa Giovanna dicendo a mia madre di dirmi che Maria stava bene: aveva avuto due gemelli e mi salutava. Non lasciò un numero per poterla richiamare. Ma fui contento per quella rinascita».
Perché hai deciso di raccontarla?
«È una storia che avevo completamente rimosso e poi è spuntata una foto che lei mi scattò un giorno sul mio terrazzo condominiale. Ho pensato a un racconto di Pasolini, ma senza durezze né violenza. Con la giusta dolcezza che il ricordo dei suoi occhi mi ha evocato».
Sei stato anche un frequentatore di bische.
«Un mondo basico, truce e meraviglioso da dove estrarre certi personaggi. Io e un amico andavamo a giocare al flipper. E lì, nei lunghi pomeriggi, ascoltavo i discorsi di certi soggetti. L’argomento prediletto era fica & motori. E quando sono diventato attore e regista ho messo in scena alcuni di questi straordinari megalomani».
Hai consegnato dei ritratti memorabili pescando un po’ ovunque nella società. Quando è finito quel mondo?
«Nel momento in cui tutti i caratteri si sono appiattiti, omologati. Oggi tutti vestono e parlano allo stesso modo. Hanno gli stessi tatuaggi, le stesse scarpe, lo stesso taglio di capelli e usano pensieri che escono dal Far West di Internet. L’ultimo mio film dove ancora era possibile raccontare l’evoluzione comica di certi personaggi è stato Viaggi di nozze».
Ti mancano quei film lì?
«I tempi sono cambiati e io con essi. Non ho quasi più capelli. Che faccio, mi metto a scimmiottare me stesso?».
Non ti piacerebbe fare un film su Maria F.?
«C’ho pensato e credo che verrebbe fuori una bella storia. Poetica. Chissà».
A proposito di poesia, non sapevo che eri stato al famoso Festival dei Poeti nella notte di
Castelporziano.
«Fu una giornata campale, che resta scolpita nella mia testa».
Racconta, mi pare fosse il 1979.
«Giugno, per l’esattezza. Con la mia lambretta e un amico ci dirigemmo verso Castelporziano. Sapevamo di questa manifestazione e della partecipazione di numerosi poeti. Alcuni come Allen Ginsberg, Gregory Corso e William Burroughs erano vere leggende.
Arrivammo sulla spiaggia nel pomeriggio. Mai visto niente di più lurido, mondezza ovunque. Il paesaggio umano era deprimente, si aggiravano i più diversi tipi umani: gente misticheggiante, tossici, delinquenza comune, personaggi equivoci, ma anche giovani in sintonia con le culture alternative. Erano migliaia di persone confluite da tutta Italia. Dal palco, l’attore Victor Cavallo cercava di dare un ordine a quella massa che a tratti ricordava i raduni hippie degli anni Sessanta».
E i poeti?
«In fila ad aspettare il loro turno per salire sul palco. A un certo punto notai una scalcagnatissima troupe che inseguiva il poeta russo Evtušenko. Hai presente le Iene quando marcano qualcuno? Si era formato un gruppo di curiosi. A un certo punto qualcuno gridò: “maestro, maestro dacce du versi su Ostia”. Lui si fermò, accese una sigaretta, guardò ispirato quel mare di merda e disse pressappoco così: “Ostia, onde di preservativi che scivolano sulla sabbia…” Aveva capito tutto».
Dai una versione molto scanzonata di quel festival.
«A suo modo fu un evento, ma io ci vedevo anche la fine delirante di un’epoca. Sulla spiaggia c’era di tutto: brandine, materassi, tende. Perfino una specie di cucina da campo, dove a un certo punto prepararono un enorme minestrone. Si creò subito ressa e qualcuno gridò: “Io c’ho fame, pure il minestrone è poesia!”. Dal palco Cavallo gridava di mettersi in fila. Fu il caos, una scena tribale, con sto pentolone fumante che sembrava un totem e a quel punto per riportare un po’ di ordine Ginsberg invitò tutti i presenti a cantare un mantra con lui: Om, om… E tutti, misticamente, lo seguirono mentre io e il mio amico Armando riguadagnammo l’uscita».
Questo è il terzo libro in cui parli di te. Ritieni così importante metterti al centro?
«Qui ho davvero raccontato cose spesso irraccontabili o rimosse. Non è un libro celebrativo. Forse è un disperato tentativo di ritornare giovane. Con le mie paure e i miei entusiasmi. Mi sono sempre sentito umile, mai arrivato alla meta. Ho sempre avuto il timore dell’ostacolo successivo. Ce la farò a saltarlo? È così per ogni cosa, anche per i miei film, ovviamente.
L’importante è essere umili e magnanimi».
Magnanimo?
«Proprio così. È un sentimento che ho appreso da mio padre. O meglio un pensiero che trovai scritto su un foglietto in cui tra le altre cose diceva che la magnanimità si avvicinava alla bellezza dell’anima. È facile se hai i soldi essere generoso. Magnanimo è uno stile di vita. È la compassione. Ho voluto molto bene a mio padre e a mia madre, alla mia famiglia, ai miei figli.
Sono quelli che mi hanno aiutato in questa complicata scalata al successo. Che poi è tale finché resta. Vai su, e poi scendi. Devi essere preparato. Ho l’età e la maturità per esserlo. Sono nato nel 1950. In una Roma in bianco e nero».
Torniamo a quella terrazza da cui eri affacciato.
«Te l’ho detto: avevo davanti una città surreale, irriconoscibile e ho pensato al peggio. Ma accetto tutto con filosofia. Questi mesi in autosegregazione sono stati tempo perso o guadagnato? Venivo fuori da una complicata operazione alle anche, che per fortuna è andata bene. Si aggiungeva questa situazione epocale del Covid. Ho reagito scrivendo e, nello scrivere, portando in superficie la parte meno nota di me: i miei amori: qualche donna, la fotografia, il cinema, la mia città, alcuni amici che non ci sono più. Il tempo ci trasforma perché noi siamo il tempo che viviamo».